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I progetti artistici site specific, nati da e per un luogo, possono avere maggior impatto sociale rispetto ai progetti esportati da altri luoghi.

Intervista a Serena Carone, critica dell’arte e autrice del libro L’arte in preda al possibile

Serena Carbone, nel suo libro L’arte in preda al possibile. Pratiche di costruzione di comunità, edito da Gli Ori, esplora un tema complesso e di grande rilevanza per l’arte contemporanea: il ruolo delle pratiche artistiche nel contesto sociale e comunitario. Con uno sguardo attento e multidisciplinare, l’autrice analizza il rapporto tra arte e comunità, facendo emergere come l’arte possa esprimersi anche al di fuori degli spazi istituzionali come musei e gallerie, e che immergendosi nel tessuto sociale, dialogando con esso contribuisca alla costruzione di nuovi legami comunitari. Leggendo le sue considerazioni e traendo spunto dalle sue riflessioni sul tema, ci siamo chiesti se Bologna Montana Art Trail, il percorso che si snoda sull’appennino tosco-emiliano, possa essere considerato un esempio concreto di questa nuova funzione dell’arte.  Se il contributo che la nostra galleria a cielo aperto, con le sue sculture frutto di un felice connubio tra uomo e natura, possano in qualche modo ambire alla costruzione di nuovi legami tra popolazione e territorio. Lo abbiamo chiesto all’autrice, laureata in lettere con diploma di Specializzazione in Storia dell’arte con indirizzo contemporaneo e phd in Studi Culturali Europei. Serena Carbone si occupa di storia e critica d’arte contemporanea, con particolare riguardo alla relazione che intercorre tra arte, storia e società.

Dottoressa Carbone lei individua negli Anni Novanta, un periodo di grandi trasformazioni per l’arte contemporanea, in cui si affermano nuovi modelli espositivi e si sperimentano linguaggi capaci di infrangere i confini tra arte e vita quotidiana. Ci può fare qualche esempio?

Il grande contributo della modernità all’arte è proprio l’apertura al quotidiano, e questo si verifica già alla fine del XIX secolo, gli anni Novanta suggellano poi le tendenze di un intero secolo mixandole con le sperimentazioni tecnologiche. In Italia il decennio dopo la caduta del muro segna la fuoriuscita dai luoghi istituzionali da parte dei giovani artisti che si riuniscono, si parlano, si mettono in dialogo tra di loro grazie alle opportunità offerte dalla rete e da un’arte che si fa sempre più “liquida”, relazionale, discorsiva, inglobando esperienze quotidiane di partecipazione alla vita sociale di un quartiere o di un territorio. Progetto Oreste (1997-2001) ne è un esempio.

Nel suo libro L’arte in preda al possibile. Pratiche di costruzione di comunità, prende in esame progetti che scelgono di radicarsi su un territorio con cui esiste generalmente un legame di tipo personale-affettivo. Possiamo considerare Bom Art Trail un progetto di questo genere? 

Penso che il territorio nella sua declinazione paesaggistica e ambientale abbia alcune risorse visibili solo a chi lo conosce, di certo i progetti site specific nati da e per un luogo possono avere maggiori possibilità di riuscita in termini di ricaduta sociale rispetto ai progetti esportati da altri luoghi e pensati come “format”. É importante però che questi tipi di progetti abbiano una loro scientificità, significa affidarsi a un comitato scientifico e costruire insieme ai diversi attori (esperti, abitanti e politici) un orizzonte di tempo e di spazio nel quale proiettarsi. Quando penso a progetti di questo genere mi viene in mente sempre “Legarsi alla montagna” di Maria Lai, la prima opera di arte relazionale e partecipata realizzata in Italia nel 1981 a Ulassai, in provincia di Nuoro. Il piccolo comune sardo aveva commissionato all’artista il tradizionale monumento ai Caduti della Guerra da collocare al centro del Paese. Maria Lai, natia del borgo ma residente da diverso tempo a Roma, piuttosto che procedere con la classica scultura celebrativa, usò la storia del territorio e della comunità per tessere nuove relazioni. Ulassai è infatti un piccolo paese, abitato soprattutto da pastori, immerso nella natura. Nel 1861 un costone di roccia si staccò dalla montagna e distrusse una casa, tre bambine morirono mentre una si salvò, si dice che tenesse tra le mani un nastro celeste e per seguirlo fosse uscita dall’abitazione qualche istante prima della tragedia. Da allora, nonostante il “miracolo”, gli abitanti guardano alla montagna con diffidenza, la stessa diffidenza che anima i rapporti tra di loro, fatti spesso di piccole invidie e dicerie. Maria Lai così l’8 settembre 1981 mette in scena il suo racconto monumentale in tre giornate: nella prima vengono tagliati ventisette chilometri di nastro azzurro, nella seconda i pezzetti ricavati sono distribuiti tra la popolazione, durante la terza una processione laica prende forma tra le vie del paese. Il filo spezzato torna a unirsi grazie agli abitanti del luogo che lo legano a porte, finestre e terrazze di case, nonché ai propri corpi quando nella fase finale della performance, il filo celeste viene fatto salire sulla montagna che così, simbolicamente, si riconnette agli uomini, alle donne e ai bambini di Ulassai.

Lei auspica che l’arte possa tornare a essere uno strumento di costruzione comunitaria, capace di restituire al pubblico non solo l’opera finita, ma un processo creativo che coinvolge la società nel suo complesso?

Penso che il linguaggio dell’arte non abbia steccati, ma bisogna educare ad esso perché questo possa avere anche un ruolo di costruzione comunitaria.

Quale è il ruolo dell’artista nella costruzione dei rapporti umani operando sugli spazi che gli sono stati assegnati?

Credo sia importante la costruzione di rapporti umani se la pratica messa in atto lo prevede. Non credo all’artista che cura o che media, per ritornare al termine che abbiamo utilizzato prima, tra le persone come una sorta di guaritore. Non c’è l’arte che cura per uscire dalle solitudini, o per lo meno non può essere questo il suo fine, se poi durante la costruzione del processo avviene ben venga. Se si vuole innescare un processo di emancipazione, o se vogliamo di consapevolezza, i pubblici devono essere parte attiva, devono avere già degli strumenti che lo mettano in relazione all’opera, e per questo che è importante educare all’arte. L’artista è un co-operatore nell’ambito delle pratiche relazionali e partecipative, può sollecitare il dialogo, ma deve esserci sempre l’altra parte pronta a intervenire.