Greenwashing, quando l’ambientalismo è di facciata.
Intervista di Anna Magli a
Riccardo Torelli, ricercatore presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Dalla prima giornata della Terra, negli anni ’70, le prestazioni ambientali delle imprese sono aumentate notevolmente, così come i casi di greenwashing, cioè le comunicazioni ingannevoli che mirano a creare negli stakeholder convinzioni eccessivamente positive sulle pratiche ambientali di un’azienda. Fare ‘greenwashing’, per un’azienda, significa investire più capitali nella comunicazione di pratiche green ed ecosostenibili che nelle pratiche stesse, usandole come facciata per incrementare il guadagno. In Italia il GW è specificamente previsto come ‘pubblicità ingannevole’ e sanzionato. Il numero crescente di dichiarazioni di responsabilità sociali delle imprese, crea difficoltà nel distinguere tra performance aziendali veramente positive e aziende che abbracciano solo apparentemente un modello di sviluppo sostenibile. Nella ricerca condotta da ricercatori provenienti da Università di Parma, Università di Modena e Reggio Emilia e coordinata da Riccardo Torelli, ricercatore presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Piacenza, si cerca di comprendere e valutare le diverse influenze che vari tipi di comunicazione fuorvianti sulle questioni ambientali hanno sulla percezione dei destinatari dei messaggi.
Prof. Torelli quando e dove nasce il termine greenwashing e perché è considerato un termine multidisciplinare e spesso assume accezioni negative?
Il fenomeno del greenwashing, di cui ultimamente si parla molto, in realtà non è così recente. Risale infatti agli anni ’60 quando per la prima volta venne identificato con un altro termine, ecopornography, nel senso che manipolava quelli che erano messaggi ambientali positivi. Nel 1986 arriva il termine “greenwashing” grazie all’ecologista Jay Westerveld che lo usa per denunciare una pratica apparentemente ecologista attuata dalle catene alberghiere sull’utilizzo di asciugamani. Aveva riconosciuto nelle indicazioni che troviamo in tutti gli alberghi, dove si invita ad usare meno asciugamani possibili per evitare troppi lavaggi poco sostenibili, non un messaggio ambientale ma la necessità di risparmiare della struttura alberghiera su acqua, detersivo, elettricità e mano d’opera. Quello che passa ancora oggi, un po’ in tutto il mondo, è il solo messaggio ambientale.
In senso etimologico si tratta di una fusione tra i termini inglesi “green” e “washing”. Con “green” ci si riferisce alla sfera della sostenibilità ambientale; “washing” rimanda invece a “whitewashing”, che letteralmente significa “imbiancare” e quindi, per traslato, “coprire”.
Quanto può pesare su un’azienda, a livello d’ immagine, un’accusa di greenwashing?
Parecchio. Le aziende oggi riconoscono il rischio ma riconoscono anche i potenziali benefici. Anche se un’operazione di greenwashing non viene riconosciuta come tale, genera comunque effetti negativi. L’azienda si concentra sull’immagine impiegando tempo, risorse e denaro e sottraendoli al miglioramento delle proprie pratiche per renderle più virtuose. Questo alla lunga non paga perché i risultati che si ottengono investendo sulla comunicazione sono a breve termine, mentre quelli che derivano da un impegno per migliorare le proprie pratiche sono ben più duraturi e soprattutto non ci si ritrova in difficoltà quando vengono emanate precise normative ambientali. Ancora peggio se le pratiche di greenwashing vengono riconosciute, segnalate e sanzionate: ci ritroviamo non solo il danno derivante dallo spreco di denaro ma una ricaduta negativa di immagine e fiducia e il crollo del valore azionario se l’azienda è quotata. Gli stessi competitor, che parrebbero essere avvantaggiati dallo smascheramento di un’azione di greenwashing, potrebbero avere una ricaduta negativa: se un’azienda, per esempio nel mercato alimentare come l’acqua minerale in bottiglia che in Italia è spesso sotto osservazione, viene scoperta a fare greenwashing anche le altre aziende che fanno acque minerali possono essere viste dal consumatore come non sincere. Una catena a reazione negativa che a volte va a distruggere interi settori. Difficile poi riabilitarsi perché bisogna spiegare in modo chiaro perché lo si è fatto e non è facile ammettere di aver sbagliato e andare avanti. Spesso in questi casi le aziende giocano sul fattore tempo, contando sul fatto che la gente dimentica e dichiarando che tutto sommato le informazioni date non erano pericolose ma solo parziali.
Che differenza c’è, magari facciamo un esempio, fra GW aziendale e GW di prodotto?
Esiste un greenwashing aziendale quando un’azienda cerca di rendere green la sua intera immagine aziendale, magari cambiando il logo in qualcosa che richiama l’ambiente come ha fatto per esempio McDonald passando dallo sfondo rosso a quello verde. Oppure, quando il singolo prodotto o la linea di prodotti hanno un richiamo a quelle che sono le pratiche positive ambientali, magari con un’etichetta particolare. Per esempio la Coca Cola ha prodotto, ma ormai è del tutto scomparsa, una linea specifica definita “più salutare” che si chiamava Life, dove l’etichetta color verde – invece del classico rosso – voleva suggerire e rafforzare le idee di “naturale ” e “sostenibile”. In realtà il prodotto era pressoché lo stesso.
Esistono inoltre pratiche molte simili al greenwashing che non toccano la sfera ambientale che tuttavia funzionano allo stesso modo. Il termine bluewashing – “blu” deriva dal colore del logo delle Nazioni Unite – si riferisce alle molte aziende, organizzazioni e enti di vario titolo che cercano di associare il proprio nome alle Nazioni Unite (ONU) al solo scopo di pubblicizzare le proprie attività senza però davvero intraprendere azioni a supporto dei programmi ONU sui diritti umani. Oppure il rainbow-washing per identificare un’attività sociale o di marketing indirizzata a presentare una realtà come vicina ai diritti e alle lotte LGBT allo scopo di aumentarne il consenso presso il pubblico. O addirittura, in riferimento all’Agenda 2030, c’è SDG-washing termine usato quando le aziende comunicano i modi in cui si allineano con gli SDG senza dare un contributo significativo al raggiungimento degli stessi. Si possono coniare termini infiniti per certe mistificazioni operate delle aziende.
L’olio Helix Ultra di Shell… ora carbon neutral. Le Stan Smith di Adidas sono state denunciate per affermazioni secondo cui sarebbero state riciclate al 50%. L’alluminio è più verde della plastica, secondo un’azienda vietnamita che imbottigliava acqua in lattina. Anche se l’alluminio è altamente riciclabile, l’estrazione dei materiali necessari per produrre l’alluminio è estremamente dispendiosa in termini di energia e acqua. In Italia sembra che i più clamorosi casi di greenwashing riguardino i contenitori delle acque minerali.
Per quanto riguarda l’Italia possiamo dire che i casi di greenwashing più eclatanti riguardano le acque minerali anche se, pur essendo stati riconosciuti come clamorosi, gli effetti negativi reali sono molto limitati. C’è poi il settore alimentare che negli ultimi tempi è molto attenzionato e infine c’è il settore della fast fashion che utilizza anche in Italia abbondantemente il greenwashing. In più c’è il settore energetico che purtroppo abusa di questa comunicazione. Quindi se dobbiamo fare una graduatoria, non metterei al primo posto le acque minerali che più che altro sono oggetto di una cattiva comunicazione pubblicitaria con informazioni ingannevoli e parziali sull’impegno ambientale ma senza un vero impatto, al contrario lo sono in modo sensibile i settori alimentari e energia. Nella moda abbiamo il caso molto noto di H&M dove sono state riconosciute pratiche scarsamente etiche e sostenibili perché l’azienda pubblicizza l’uso di fibre biologiche e sostenibili ma nasconde le criticità relative allo sfruttamento dei lavoratori e l’utilizzo di prodotti chimici dannosi per la salute come quelli per la colorazione dei tessuti. Quindi è un greenwashing molto sottile da percepire perché l’azienda è abile nel mettere in primo piano quello che fa di positivo nascondendo quello che fa di negativo quando l’aspetto positivo vale ad esempio il 10 percento e quello negativo il 90. Il greenwashing può anche essere questo: non è solo la grande bugia ma anche andare coprire aspetti di grande impatto negativo con un piccolo aspetto positivo.
Che percezione, tema della vostra ricerca, ha il consumatore del greenwashing? Quanto riesce ad essere scaltro nel riconoscerlo?
Entriamo in un campo molto complicato. Le pratiche di greenwashing non sono sempre così manifeste perché spesso la comunicazione confonde il consumatore che tende recepire solo la parte positiva della comunicazione. Sono pratiche sottili, poco visibili. Non siamo sempre davanti a chiari imbrogli come è successo in passato con l’etichetta Energy Star che si applicava per attestare la riduzione dei consumi energetici dei dispositivi elettronici. Alcune aziende infatti le applicavano senza aver fatto nessun controllo con l’autorità che rilasciava questa certificazione spacciando i loro dispositivi come Energy Star quando non lo erano assolutamente. Questo è stato veramente un caso di greenwashing pesante ed anche illegale. Eppure c’era poca percezione di questa truffa da parte dei consumatori. Fra l’altro alcuni ricercatori hanno fatto uno studio nel 2015 in cui si sosteneva che si può definire un processo di “greenwashing” solo quando è scoperto e accusato pubblicamente. Secondo loro una persona non può sapere se è greenwashing e quindi non lo è a tutti gli effetti. Questo rende l’importanza di quanto conta ed incide essere denunciati pubblicamente .
Come devono fare un cittadino, un’associazione di tutela dei consumatori e un’impresa per contestare una comunicazione greenwashing?
Un punto dolente perché al momento si può fare davvero poco. Non esiste una legislazione specifica quindi anche l’autorità si trova di fronte ad un buco normativo. Viene quindi valutato caso per caso. Abbiamo una prima sentenza in Italia del tribunale di Gorizia dove un’azienda ha denunciato un’azienda competitor per una pratica che è stata riconosciuta dal giudice come scorretta ma si è trattato di un’azienda che si è rivolta direttamente all’Autorità Giudiziaria, con il suo peso di azienda e il suo ufficio legale. Un consumatore è più in difficoltà. L’unica è rivolgersi a una associazione di consumatori o all’autorità garante della concorrenza e del mercato, un’autorità amministrativa indipendente che è l’unica autorità responsabile in Italia per la comunicazione delle aziende in termini di pubblicità o altre dichiarazioni. Non abbiamo ancora identificato un vero e proprio “reato” di greenwashing ma continuiamo a gravitare nell’ambito di comunicazione ingannevole di stampo ambientale, che esiste già da moltissimi anni.