Sottocorteccia: è necessario che sempre più persone tornino a discutere di foreste, di montagna, di comunità e risorse naturali.
Intervista di Anna Magli a Luigi Torreggiani, dottore forestale.
A seguito della tempesta Vaia di fine 2018, una minaccia incombe sulle foreste del Nord-Est. Si tratta del bostrico tipografo, un coleottero che attacca la specie più diffusa e importante dei boschi alpini: l’abete rosso. L’insetto si è diffuso a macchia d’olio dopo il tremendo stress di quella notte, ma anche grazie all’inesorabile incedere del riscaldamento globale. Come ogni crisi, anche questa può nascondere opportunità. Ci obbliga ad aprire gli occhi sulle conseguenze della crisi climatica, ci costringe a riflettere sul destino delle nostre montagne e ci spinge a rinsaldare un legame antico e imprescindibile, quello con il più grande e dimenticato dei tesori italiani: le foreste, i boschi, le selve. Nel libro diario Sottocorteccia, un viaggio tra i boschi che cambiano, edizioni People, il dottore forestale Luigi Torreggiani racconta insieme all’antropologo Pietro Lacascella del piccolo coleottero che li ha fatti incontrare e del loro viaggio – che è anche un’amicizia – tra le Alpi. Due punti di vista diversi, uno antropologico e uno scientifico, dipanano la complessità e offrono una prospettiva nuova sul futuro di Uomini, Foreste e Insetti, protagonisti di questa avventura e della vita sul nostro pianeta.
Ne parliamo con uno degli autori, Luigi Torreggiani, che oltre a dottore forestale è anche giornalista e scrittore. Collabora con la rivista tecnico-scientifica “Sherwood – Foreste ed Alberi Oggi”, gestisce un blog sulla rivista L’AltraMontagna e cura per Compagnia delle Foreste la comunicazione di numerosi progetti collegati ai temi della Gestione Forestale Sostenibile e della conservazione della biodiversità forestale.
Il protagonista di Sottocorteccia è il bostrico, un coleottero che fa parte degli ecosistemi delle nostre foreste, e che però ora le sta devastando. Che cosa sta succedendo?
Il bostrico è un insetto che si è evoluto assieme all’abete rosso e che, proprio come questa specie arborea simbolo delle Alpi, è da sempre presente nei nostri ecosistemi. Di “mestiere” svolge un ruolo di regolazione molto utile: attacca piante deboli, stressate e senza futuro permettendo così il “ricambio generazionale” della foresta, lasciando cioè spazio ai nuovi alberi che rinasceranno nei vuoti lasciati.
La sua presenza passa ciclicamente da endemica a epidemica quando particolari condizioni ambientali fanno sì che le popolazioni di bostrico trovino molto “pane per i propri denti”. È stato il caso della tempesta Vaia, che ha abbattuto milioni di abeti rossi a fine 2018 fornendo un’enormità di substrato utile per la vita dell’insetto, che si svolge per buona parte sotto la corteccia degli abeti, proprio nella zona dove scorre la linfa (è l’interruzione del flusso linfatico a portare rapidamente a morte gli alberi).
Ma analizzare questa grande infestazione che stiamo vivendo puntando l’attenzione solo su Vaia sarebbe un errore. Il bostrico si sta diffondendo molto più che in passato in tutta Europa e persino nei rimboschimenti d’Appennino, laddove la tempesta non è passata: perché? Beh, qui bisogna chiamare in causa la crisi climatica, che è legata a “doppio filo” con l’infestazione di bostrico.
Oltre a favorire piccole o grandi tempeste di vento, il surriscaldamento globale stravolge i regimi pluviometrici, portando spesso a lunghe siccità che mandano in crisi l’abete rosso: e tante piante stressate tutte assieme sono una “manna” per il coleottero. Inoltre, la presenza di inverni sempre meno rigidi non determina la mortalità delle popolazioni svernanti di insetto e la stagioni utili al suo ciclo vitale aumentano, anche a quote elevate: questo determina che laddove si osservava il completamento di una generazione di bostrico all’anno, oggi se ne contano due, talvolta addirittura tre.
Ma tornando alla domanda, un altro grande tema è la presenza imponente dell’abete rosso sulle Alpi, spesso in boschi monospecifici posti anche al di fuori dell’areale naturale della specie. In passato l’abete rosso è stato piantato e favorito massicciamente per la sua grande utilità, ma oggi, anche a causa del cambiamento climatico, stiamo assistendo ad una crisi di questi popolamenti spesso artificiali o comunque non del tutto naturali. Il bostrico è un segno evidente di questa “crisi nella crisi”.
Quando si parla di bostrico nella discussione pubblica si tende a puntare il dito contro le monocolture di abete rosso, che caratterizzano molti territori, soprattutto delle Alpi orientali. Le monoculture riducono le biodiversità?
È indubbiamente così: le piantagioni monospecifiche non sono certo paragonabili, in termini di biodiversità, ai boschi naturali.
Tuttavia, come raccontiamo in Sottocorteccia, non è del tutto corretto definire i boschi di abete rosso delle Alpi una “monocoltura” di stampo agronomico. La specie, nonostante sia stata molto favorita, è tipica degli ambienti alpini e le piantagioni non sono fatte di cloni (piante geneticamente identiche), ma di alberi derivati da semi raccolti in bosco e coltivati in vivaio, che perciò conservano una loro diversità genetica. Inoltre, non è certo stata una multinazionale ad imporre la monocoltura, come spesso avviene in altri contesti: la diffusione così ampia dell’abete rosso ha origini storiche, molto antiche, strettamente connesse alle vicende sociali e politiche che hanno attraversato le Alpi.
Certo, ora abbiamo bisogno per il futuro di boschi più resistenti e resilienti, perciò più diversificati in termini di composizione specifica ma anche di struttura e classi di età: iniziamo quindi a lavorare ai boschi del futuro, ma senza però puntare inutilmente il dito sulle scelte del passato, maturate in un contesto socio-culturale (e climatico) completamente diverso dall’oggi.
È anche vero che si deve tenere conto di scelte fatte in passato per evitare lo spopolamento della montagna, Possiamo considerare la monocoltura una di queste? Perché fu fatta?
L’abete rosso è sempre stato un albero importantissimo per le popolazioni delle Alpi: cresce bene, velocemente, con un tronco dritto, e il suo legno è facilmente utilizzabile per tantissimi utilizzi. Puntare su questa specie è stato quindi naturale, in un contesto dove le conoscenze ecologiche non erano certo quelle attuali. È importante anche inquadrare la situazione sociale, politica e ambientale delle Alpi di metà Ottocento, che era davvero molto diversa da oggi. Molti rimboschimenti di abete rosso in Trentino, ad esempio, furono realizzati a seguito di un grande sfruttamento forestale e a conseguenti devastanti alluvioni, come quella del 1882: piantare abeti ha rappresentato un modo efficace per frenare rapidamente il dissesto idrogeologico ma anche per dare lavoro a gente poverissima, che altrimenti sarebbe emigrata in America. Ecco che, di conseguenza, non ha senso parlare solo di “monocoltura”: dietro questa parola con un’accezione unicamente negativa, in questo caso, c’è una storia che va compresa e analizzata, non certo ripudiata.
Quando si parla di boschi, foreste, tagli c’è nel linguaggio informativo ancora molta mistificazione. L’esasperazione e le boutade fanno sempre molto notizia. Occorre un’etica anche per la comunicazione ambientale?
Assolutamente sì. E la base di questa etica della comunicazione ambientale è presto detta: abbiamo bisogno delle risorse naturali, non possiamo farne a meno. Per far sì che esse rimangano anche per le generazioni future occorre gestirle in modo responsabile, sostenibile, equilibrato.
Il legno, ad esempio, è una materia prima rinnovabile fondamentale per la transizione ecologica. Tutti gli altri servizi ecosistemici forestali sono fondamentali per le nostre vite. Per questo è importante gestire le nostre foreste, anche realizzando tagli, che tuttavia preferisco chiamare “interventi selvicolturali”, perché questo sono. Invece di urlare allo scandalo ogni volta che si trova una catasta di legno o un gruppo di alberi tagliati occorrerebbe concentrarsi sul come è stato svolto l’intervento, sui suoi obiettivi, sulla sua utilità per la società e per l’ambiente, sia a scala locale che globale.
Uno dei messaggi del libro è che ogni crisi si nasconde un’opportunità e l’obiettivo sembra quello di riflettere sulle conseguenze, sempre più evidenti, della crisi climatica. Perché si pensa sempre molto poco alla montagna, come se vivesse di vita propria senza essere toccata dai grandi sconvolgimenti climatici per poi accorgercene quando succedono eventi come Vaia?
La montagna, e le foreste in particolare, sono uscite dal dibattito pubblico a partire dal secondo dopoguerra, quando è iniziata la forte industrializzazione del nostro paese, la concentrazione degli abitanti nelle città e, di fatto, l’abbandono dei territori rurali. Oggi però la crisi climatica ci mostra chiaramente come montagna e pianura siano strettamente legate, basti pensare alle drammatiche alluvioni che abbiamo vissuto recentemente, ma anche, tornando alla domanda precedente, al nostro bisogno di risorse naturali. Vaia e l’infestazione di bostrico, così visibili in luoghi altamente iconici e molto frequentati dai turisti, potrebbero rappresentare delle “sirene d’allarme” per spingere sempre più persone a tornare a discutere di foreste, di montagna, di comunità e risorse naturali. Questo è indubbiamente uno degli obiettivi del libro, che parte dal bostrico, sì, ma per parlare poi anche di tanto altro…
Il patrimonio forestale italiano è abbastanza tutelato e conosciuto? Portare la gente nei boschi, nelle selve, nelle foreste, anche in quelle non accessibili, in modalità didattica per insegnare loro a conoscere e a non fare danni, non potrebbe essere una forma di turismo sostenibili anche educativo?
Il 35% circa delle foreste italiane si trova all’interno di aree protette, in Parchi Nazionali e Regionali o nella Rete europea Natura 2000: molto di più di tanti Paesi simili a noi. Inoltre, esistono leggi nazionali e regionali che stabiliscono le modalità di gestione sostenibile, per non parlare di numerosi istituti di ricerca e università che studiano come tutelare e gestire questo grande patrimonio, che copre ormai quasi il 40% del Paese, il doppio rispetto a fine Ottocento.
A mio avviso, occorrerebbe ampliare l’offerta di educazione ambientale e di informazione, anche turistica, includendo non solo gli aspetti naturalistici in senso stretto, ma anche quelli storici, sociali, culturali. Il tema che reputo fondamentale è quello di offrire nuovi “occhiali” alle persone, con cui permettere loro di vedere che, oltre alla coperta verde del bosco, c’è un’affascinante complessità da scoprire, che è fatta di valori ambientali, certamente, ma anche economici e sociali.
Sottocorteccia, in fondo, è un “inno alla complessità”: di fronte a una realtà dominata da semplificazioni e slogan, le foreste, coi i loro grandi problemi ma anche le incredibili opportunità che rappresentano, possono diventare un veicolo fondamentale per una nuova consapevolezza verso la natura e la montagna, nel loro imprescindibile legame con noi esseri umani.