Troppi delfini spiaggiati. L’interazione con la pesca è uno dei principali stress. Ma non solo.
Intervista di Anna Magli a Letizia Marsili, docente di Ecologia del Dipartimento di Scienze Fisiche della Terra e dell’Ambiente all’Università di Siena..
Continua a preoccupare il bilancio dei cetacei spiaggiati sulle nostre coste che conta, negli ultimi 15 mesi, ben 194 esemplari. Nella maggior parte dei casi si tratta di delfini, più precisamente tursiopi e stenelle. A rendere la loro sopravvivenza sempre più complessa è soprattutto l’interazione con la pesca. Il nostro mare è stressato dalle attività antropiche, che invece di diminuire stanno addirittura aumentando. Ed è anche il mare più surriscaldato del mondo a causa del cambiamento climatico, nemico dei cetacei. Nel sud del Mediterraneo ci sono dei veri e propri ecosistemi marini nuovi, dove le specie di pesce erbivore tradizionali sono sostituite da specie invasive, come il pesce coniglio. Adesso l’Italia rischia l’ennesima procedura d’infrazione da parte dell’Ue per non averli salvaguardati dalle catture accidentali. Ne parliamo con la professoressa Letizia Marsili, docente di Ecologia del Dipartimento di Scienze Fisiche della Terra e dell’Ambiente all’Università di Siena.
Cosa ne pensa degli ultimi dati sugli spiaggiamenti di delfini? Siamo “fuorilegge” come dice l’Unione Europea?
La Comunità Europea accusa l’Italia di non aver condotto ricerche e adottato interventi adeguati a garantire che le catture accidentali delle attività di pesca non abbiano un impatto negativo importante sulla conservazione delle specie protette, in particolare di delfini, quali tursiopi e stenelle striate. In realtà molti sono i progetti e le attività scientifiche che si occupano di questo tema, anche finanziati dalla stessa EU, quali il Progetto Life Delfi, coordinato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR- Irbim), insieme ai partner Legambiente, Filicudi Wildlife Conservation, le Università di Siena e Padova, l’istituto di ricerca croato Blue World Institute e quattro aree marine protette (Punta Campanella, Isole Egadi, Tavolara Punta Coda Cavallo, Torre del Cerrano). Anche sul monitoraggio degli spiaggiamenti di delfini, cioè degli esemplari ritrovati morti sulle nostre coste, l’Italia è una delle nazioni che per prima ha istituito reti per il loro recupero, addirittura fin dagli anni ’80 del secolo scorso. Anche adesso abbiamo tanti gruppi che, come il Centro Studi Cetacei o il CERT (Cetacean strandings Emergency Response Team) o l’Osservatorio Toscano della Biodiversità, portano avanti con continuità questa attività. Con il progetto europeo Life Delfi abbiamo potuto constatare che il numero di cetacei ritrovati morti e che abbiamo poi recuperato non è aumentato rispetto ai periodi precedenti, piuttosto possiamo affermare che il trend non è in diminuzione e questo è comunque preoccupante. Ci sono stati degli anni, in passato, in cui davvero potevamo parlare di boom degli spiaggiamenti, con delle morie di massa importanti, soprattutto di stenella striata, il delfino che è più presente nei nostri mari, ma erano legate principalmente ad un virus, il Morbillivirus, che aveva colpito in maggioranza giovani esemplari già affetti dall’abbassamento delle difese immunitarie a causa, ad esempio, degli alti livelli di accumulo di contaminanti ambientali, avendo così un esito mortale.
Quanto influisce sugli spiaggiamenti l’interazione con la pesca?
L’interazione con la pesca è uno dei principali stress per questi animali. Va salvaguardato il mare e la sua biodiversità, tutelando queste specie che si trovano tutte nella lista rossa dell’I.U.C.N. (l’Unione mondiale per la conservazione della natura) la quale ci conferma la necessità di effettuare misure di conservazione adesso, in questo momento. Non dimentichiamoci però, che dobbiamo anche, in qualche modo, tutelare l’economia del mare.
Quale tipo di pesca provoca queste morie?
Con il progetto Life Delfi cerchiamo di evitare quelle che sono definite le “catture accidentali”, definite con il termine inglese molto utilizzato di bycatch. Ogni anno il bycatch è responsabile del decesso di un elevato numero di delfini, tartarughe marine, squali e razze, uccelli e molti altri animali. Si verifica principalmente perché spesso le moderne attrezzature da pesca, oltre ad essere molto resistenti, possono coprire anche aree estese e non sono selettive: scegliere cosa catturare e cosa escludere è spesso impossibile.
Dobbiamo cercare di migliorare i metodi di pesca, soprattutto individuare strategie che possano evitare gli intrappolamenti.
Il progetto Life Delfi si occupa proprio di questo. Posizioniamo dissuasori acustici chiamati pingers sulle reti, che scoraggiano i delfini dall’avvicinarsi per “rubare” il pesce. Abbiamo fatto anche una sperimentazione con delle luci. Si tratta di luci particolari a UV che in qualche modo avvertono l’animale della presenza della rete e questo vale non solo per i delfini ma anche per le tartarughe marine. Stiamo anche facendo un’azione di “formazione” dei pescatori, proponendo dei metodi differenti di pesca, come ad esempio quelli con le nasse dove certamente animali come i delfini o le tartarughe marine non possono rimanere intrappolati. Un’altra iniziativa che stiamo portando avanti è quella di insegnare ai pescatori a fare il “Dolphin Watching”, cioè proponiamo loro di indirizzarsi in alcuni periodi dell’anno verso un’attività differente, che consiste nel portare i turisti a vedere i delfini in mare. In questo modo il delfino può diventare fonte di reddito e non un competitor del pescatore.
Ma la responsabile degli spiaggiamenti è solo la pesca o sono in ballo anche altri fattori? Di tipo ambientale per esempio…
Quando parliamo di uno spiaggiamento, non parliamo mai di una causa unica ma di uno stress multiplo. Le cause che possono portare alla morte di un delfino sono tantissime. Si parte da quelle naturali, come la vecchiaia o una malattia, e si arriva a quelle che sono causate dalle attività antropiche. Tutto quello che l’uomo ha fatto all’ambiente, purtroppo, viene restituito in un modo amplificato e si rivolge, in particolare, contro questi animali che, per le loro caratteristiche di predatori terminali con una lunga vita ma anche per la loro fisiologia, rappresentano uno dei bersagli principali. Io sono un’ ecotossicologa, cioè studio la presenza e gli effetti di alcuni contaminanti ambientali nelle specie viventi, con particolare riferimento ai delfini. Abbiamo accertato che i contaminanti di vecchia generazione, quelli definiti “dinosauri della contaminazione ambientale” come il DDT, sono ancora presenti nell’ambiente, raggiungendo livelli altissimi in questi animali, in cui superano quelle soglie considerate di non pericolo e, quindi, diventando una delle cause della loro morte. In particolare, questi contaminanti agiscono abbassando le capacità del loro sistema immunitario, favorendo così l’insorgere di molte patologie. Altri fattori di stress sono ad esempio il cambiamento climatico, il disturbo acustico, il marine litter, la diminuzione delle risorse ittiche, le quali diminuiscono sia per il pescatore sia per i delfini.
Un delfino spiaggiato è sempre un delfino condannato a morire o si può ancora salvare?
Con il progetto Life Delfi sono stati organizzati dei “Rescue Team” cioè dei gruppi di pronto intervento. Sono persone già del settore che vengono formate dai veterinari dell’Università di Padova, coordinati dal Prof. Mazzariol, i quali hanno visitato tutti i partner del progetto per creare questi gruppi di primo soccorso, in grado di intervenire su un delfino spiaggiato che mostra ancora segni di vita. È molto difficile, a differenza di una tartaruga marina, che si possa fare qualche cosa per salvare un delfino. Il primo tentativo è sempre quello di riportarlo in mare e sperare che l’animale ritrovi il suo nuoto naturale e si sia trattato di uno spiaggiamento dovuto allo smarrimento della direzione o a un momentaneo problema di vario genere. La maggior parte delle volte, purtroppo, non riusciamo a “salvare” l’animale che, anche se riportato in mare, si spiaggia nuovamente e muore. La cosa importante però, è che da un punto di vista scientifico non è morto invano, ha una seconda vita: grazie a lui, infatti, otteniamo moltissime informazioni che non sarebbero ricavabili se non con l’uccisione volontaria di questi animali. Informazioni che potranno essere utili per salvaguardare tutti i delfini del futuro.
Che cosa rischia l’Italia, a livello europeo, per non aver rispettato la legge, per non aver salvaguardato i delfini dalle catture accidentali?
L’Italia sta rischiando una procedura d’infrazione che però non è proprio legata al non aver salvaguardato i delfini, ma al non aver rispettato la direttiva Natura 2000. La direttiva dava indicazioni di creare ulteriori aree di protezione per tutelare specie ed habitat. Per proteggere alcune di queste specie, come i delfini, devono essere trovati dei metodi per evitare le catture accidentali che possono verificarsi con la pesca. L’Italia rischia quindi una multa importante, si parla di più di 8000 euro al giorno, denaro che potrebbe invece essere veicolato per sostenere la ricerca e investire su metodi di salvaguardia. È importante che tutte le regioni, come quella toscana che è molto attiva su questo fronte, ma anche il Ministero preposto, investano sempre di più su questi studi, fondamentali per la conservazione della Biodiversità, che è anche uno dei 10 indici per valutare la Salute degli Oceani e, quindi, indispensabile per la salute dell’uomo in quello che è il concetto di One Health, dal quale non si può più prescindere.