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Montagna: è l’ora di trovare alternative alla religione monoturistica

Intervista di Anna Magli a Irene Borgna, antropologa.

Da lunedì 8 gennaio è online un nuovo prodotto digitale interamente dedicato al mondo della montagna. L’Altra Montagna è il quotidiano online che approfondisce i temi ambientali e sociali delle Terre Alte e si avvale di collaboratori sparsi in tutta Italia e di un comitato scientifico per offrire ai suoi lettori, un’informazione sempre documentata e attenta con un approccio agganciato alla scienza e ai dati. E noi oggi intervistiamo un membro del comitato scientifico, l’antropologa Irene Borgna, con cui parleremo della relazione uomo, natura, ambiente e montagna.
Irene Borgna si occupa di divulgazione e comunicazione in campo ambientale presso le Aree protette delle Alpi Marittime. Guida naturalistica e responsabile dell’educazione ambientale per le Aree Protette delle Alpi Marittime. Il suo “Cieli neri. Come l’inquinamento luminoso ci sta rubando la notte” (Ponte alle Grazie 2021) ha vinto il premio Mario Rigoni Stern ed è stato segnalato fra i libri di viaggio e d’esplorazione dal premio Giuseppe Mazzotti.

Perché, secondo lei, lasciare una traccia, un segno permanente del nostro passaggio, è un’attitudine profondamente umana? Quali sono le tracce più evidenti, simboliche ovviamente, che lasciamo
nel nostro passaggio in montagna?
In montagna sono tantissimi gli animali che lasciano tracce volontarie della loro presenza: basta un po’ di occhio e durante una passeggiata si possonodistinguere le marcature di varie specie. Ma mentre agli altri animali interessa
dire ai propri simili “sono qui”, a noi umani sta più a cuore dichiarare “sono stato qui”. Spavaldi ma insieme consapevoli del nostro essere di passaggio, fragili ed effimeri, in fondo non ci facciamo una ragione della nostra
temporaneità: e allora insistiamo a lasciare una firma, una traccia, un segno per chi verrà dopo di noi. Ancora peggio è accettare che chi amiamo non ci sia più: così riempiamo il paesaggio di piccoli memoriali, in un tentativo che
riesce a essere nello stesso tempo comprensibile; tenero, ma anche inutile e molesto (di me fra tre generazioni a dir tanto non si ricorderanno nemmeno gli eventuali pronipoti, con o senza monumenti più o meno inguardabili).
Insomma, dato un significato comune di fondo, di tracce ne lasciamo di tutti i colori. Ci sono quelle estemporanee di chi passa e lascia uno scarabocchio che testimonia il suo passaggio, poi ci sono i segni “istituzionali”, come la firma
sul libro di vetta, un’affermazione ufficiale del nostro “essere stati lì”, we too. Infine ci sono i segni che lasciamo sulla vetta, una specie di confine e di
contatto tra terra e cielo, segni che possono essere religiosi o meno. La differenza con quello che accade in Francia è impietosa. Di là troviamo cumuli di sassi biodegradabili, in Italia croci o altre sculture religiose, talvolta di
dubbia estetica. Io non me ne intendo granché di Dio, ma a vedere queste riproduzioni così goffe di Cristo e della Madonna, mi sembrano quasi blasfeme: la Creazione è già perfetta com’è. Forse il Creatore apprezzerebbe di
più una tensione quotidiana dei fedeli al bene piuttosto che gli exploit di bricolage in alta quota grazie ai quali ogni tanto si aggiunge una statuetta da qualche parte. Ma ripeto: non ne capisco granché di Dio. Per me è unicamente
questione di rispetto del tutto terreno fra le persone: perché qualcuno può privare tutti gli altri della bellezza di un luogo senza simboli né rivendicazioni.
Un luogo che è terra e cielo e basta. Ultimamente ci sono installazioni artistiche sul cui valore non ho strumenti per pronunciarmi (oltre che non capirne di Dio, non ne capisco nemmeno di arti visive), però sulla loro ubicazione una riflessione mi sento di farla: “Ma siamo proprio sicuri che sia una buona idea?” Anche se fosse l’opera d’arte più bella del secolo, toglie più che aggiungere. Installazioni collocate in un ambiente dove il nostro sguardo potrebbe davvero abbracciare un paesaggio, non dico incontaminato perché sarebbe scorretto, ma comunque con una natura almeno relativamente integra, rendono impossibile questa esperienza.
La possibilità, la libertà di ammirare lo spazio circostante senza un manufatto umano, senza una traccia che denunci in modo evidente e chiassoso la
presenza umana, è un qualcosa che dobbiamo preservare per chi verrà dopo di noi. Come il cielo stellato.

L’attuale escalation di “tracce permanenti” individuali, collettive o istituzionali inflitte al paesaggio montano è una ferita profonda?
Sì, per i segni che non si possono cancellare o rimuovere, certamente. E’ un discorso culturale. Lasciare una traccia può voler dire anche appropriarsi di un territorio (in questo, siamo davvero simili a un sacco di altre specie
animali che fanno esattamente lo stesso!). A molti piace vedere un manufatto umano nei paraggi: ci fa percepire il paesaggio più domestico e sotto controllo, ci tranquillizza. Marcando il territorio ci sembra di poterlo
dominare. Forse è una necessità psicologica che dobbiamo soddisfare, ma direi che potremmo ritenerci appagati di aver modificato già la quasi totalità del pianeta. Anzi si tratta oggi di salvaguardare una libertà più fondamentale
e importante, nostra e di chi verrà dopo di noi. La libertà di poter pensare o immaginare un mondo senza di noi. Questo sì che è un bisogno di cui non ci rendiamo conto: presi dalle nostre incombenze quotidiane e nevrosi varie, ci
farebbe un gran bene relativizzarci. Non pensarci sempre al centro di ogni cosa.

La gente di montagna è ancora consapevole della fortuna che ha a risiedere in questi paradisi?
Per gente di montagna si intende una categoria molto ampia, così tanto che diventa difficile da maneggiare in modo sensato. Dipende. C’è molta differenza tra chi abita in una città di montagna o comunque in centri abbastanza grandi e chi invece vive in un paesino con poche anime, magari in quota e con una strada tortuosa che lo raggiunge. L’unica cosa che mi sento di dire è che noto una grande differenza nella
percezione della consapevolezza di vivere in un gran bel posto, dove la qualità della vita è obiettivamente alta. Luoghi ormai spesso (ma non sempre!) di facile accesso, dove ancora i servizi essenziali alla popolazione sono garantiti, con tutte le prerogative per vivere davvero bene. Chi si rende conto di questo? Apprezza e gode davvero dell’ambiente naturale e umano chi ha ancora dimestichezza con il territorio. Questo per vari motivi, uno fra tutti perché ha conservato un legame quotidiano con la montagna. Per esempio perché è allevatore, agricoltore, guardaparco, boscaiolo, cacciatore, guida naturalistica o alpina. Anche perché sono tutte persone che non potrebbero fare altrove le
cose che fanno. In molti casi si tratta di figure che, per dovere e/o per amore, si prendono cura del territorio, contribuiscono a custodirlo e a mantenerlo.
Ma non è automatico che basti la dimestichezza perché scatti la cura: ci vogliono sensibilità e competenze per niente scontate. Chi lavora in ambito turistico è ovviamente consapevole di vivere in un bel posto: se ci si sono
persone che pagano per venire a trascorrere il loro tempo libero dev’essere così. Però è già una consapevolezza un po’ più di assalto, che troppo spesso si traduce ancora in una volontà di “vendere il territorio” senza farsi tante
domande, alcune delle quali ormai impossibili da evitare: che turismo vogliamo? Quanto ne vogliamo? Quanto turismo può sopportare il nostro territorio?

Lo spopolamento dei decenni scorsi sta conoscendo una controtendenza. Sono molti quelli che ritornano, magari con visioni e prospettive più ampie. Che cosa fanno quelli che tornano?
Il ritorno alla montagna è un fenomeno il cui peso varia moltissimo da zona a zona. Anche i ritorni (brevi, lunghi, di successo, fallimentari) sono differenti.
E così cambiano anche i ritornanti. Ci sono persone che sono andate via, magari a studiare, a specializzarsi, e poi tornano in montagna. Sono di solito persone super interessanti e motivate che, che dopo aver visto un po’ di
mondo e allargato i loro orizzonti, scelgono di tornare a casa diventando risorse molto preziose per il territorio. Portano idee, portano competenze. Poi c’è chi viene da altri contesti, come posso essere io che dal mare mi sono
spostata sulle Alpi Marittime. Anche in questo caso, quando si sceglie un posto, ci si impegna a viverci e a lavorare perché lo hai voluto, non ti è capitato per caso. Quello che ho notato durante la tesi di dottorato, è che
molte delle imprese economiche più di successo e innovative del territorio che ho studiato erano proprio condotte da persone che venivano da fuori, e che portavano visioni nuove: o ritornanti o nuovi abitanti. D’altro canto è anche
logico che chi abita da sempre in un posto e non si è mai mosso, ha magari ereditato lavoro e proprietà dalla famiglia, non abbia la spinta a immaginare.qualcosa di diverso: sta già bene così. Chi viene da fuori, invece, deve
inventarsi qualcosa, è costretto, per sopravvivere, ad attivare la sua creatività.

Che cosa intende per religione monoturistica della montagna?
Monoturistico è l’approccio alla frequentazione e alla fruizione della montagna incentrato solo sul turismo come fonte di sostentamento, come unico orizzonte possibile per vivere le terre alte e per vivere sulle terre alte.
Un approccio che ha fatto sì che investissimo anche negli ultimi anni risorse economiche ed energie nello sforzo di attirare il maggior numero di persone possibile in montagna, con pratiche e infrastrutture dal forte impatto
sull’ambiente. In inverno si è puntato tutto- e lo si fa colpevolmente ancora – su quella che adesso sembra essere per molte zone quasi un miraggio: la neve.
Quella neve che, gli scienziati lo ripetono da anni, diventerà sempre più scarsa. E quindi? E quindi in ritardo clamoroso, perché già lo siamo, bisogna inventarsi per forza un futuro diverso: bisogna tentare, anzi tracciare nuove
strade che non ci sono mai state. E’ difficile, doloroso allontanarsi da un modello economico e sociale, ma non c’è alternativa al trovare alternative. Io credo che le montagne possano diventare di nuovo, con l’accelerazione della
crisi climatica che dà un impulso in questa direzione, luoghi dove si abita. Non solo luoghi di divertimento dove si viene a sciare o villeggiare, ma luoghi di vita e di lavoro. Se fossimo minimamente svegli, questo ritorno andrebbe
progettato e guidato, non lasciato all’emergenza e al caso. Nell’immediato si possono anche immaginare soluzioni per riadattare quelli che sono stati i comprensori sciistici a una fruizione che differente.
Bisogna fare comunque attenzione perché non tutte le fruibilità alternative allo sci sono più sostenibili dello sci stesso: dovunque ci sia una montagna lunapark, considerata solo come una meta mordi e fuggi dove arrivo, mi
diverto, mi faccio un selfie e torno a casa, continua a persistere il modello di massa.
Oggi non c’è nulla di scontato nel discutere del futuro delle terre alte e tutti i punti di vista sono importanti: sono felice di essere nel comitato scientifico de L’Altramontagna perché è uno spazio che fa del confronto basato su dati
oggettivi il suo punto di forza. E ce n’è tantissimo bisogno per non perdere l’orientamento, per tracciare un nuovo possibile cammino.