Arcoiris: seminare la diversità per conservare il nostro patrimonio sementizio e tramandarlo al futuro.
Intervista di Anna Magli Zandegiacomo
ad Antonio Lo Fiego: cofondatore di Arcoiris.
Arcoiris è un’azienda sementiera nazionale a totale capitale italiano, al 100% biologica e biodinamica, che produce solo ed esclusivamente le proprie sementi di ortive e di cereali con produttori italiani creando una filiera etica tutta nazionale. Il suo obiettivo, o dovremmo parlare di mission, è quello di moltiplicare e selezionare varietà di ortive, officinali, sovesci e cereali specifiche per la produzione biologica e biodinamica partendo da sementi Open Pollinated, cioè a impollinazione aperta, cioè non ibride, e rigorosamente non OGM.
Fra gli obiettivi di Arcoiris c’è quello di seminare la biodiversità cioè sostenere le piccole aziende agricole o i singoli coltivatori diretti per registrare nei cataloghi pubblici alcune varietà a rischio di estinzione. Un obiettivo che ha la duplice finalità: consentire la vendita autonoma e garantire la sopravvivenza di alcune sementi. Come vi muovete in questa operazione di vera archeologia botanica e quali sono le minacce che cercate di scongiurare?
Per Arcoiris è molto importante il concetto di sovranità alimentare. (La sovranità alimentare è un indirizzo politico-economico volto ad affermare il diritto dei popoli a definire le proprie politiche e strategie sostenibili di produzione, distribuzione e consumo di cibo, basandole sulla piccola e media produzione. Secondo i sostenitori della sovranità alimentare, i Paesi devono poter definire una propria politica agricola ed alimentare in base alle proprie necessità, rapportandosi alle organizzazioni degli agricoltori e dei consumatori n.d.r.)
Noi riteniamo che i produttori abbiano il diritto di riprodurre le proprie sementi e in ragione di questo principio, che condividiamo con i produttori, non vendiamo sementi ibride e ovviamente non Ogm. Vendiamo sementi standard e ognuno se le può riprodurre in azienda. Questa è una delle nostre mission. L’azienda che sarebbe poi diventata Arcoiris, è nata quasi un quarto di secolo fa con l’obiettivo di selezionare e produrre sementi ortive, di cereali e per il sovescio. Operando nel settore del biologico, che è nato per difendere la biodiversità e l’ambiente, abbiamo lavorato con l’università di Bologna e Firenze ed altri istituti, dove operano docenti e ricercatori che operano per la difesa e la valorizzazione della biodiversità locale. Arcoiris ha recuperato e iscritto otto antiche varietà di ortaggi al Registro Senza Valore intrinseco (uno dei registri della biodiversità): anguria di Faenza, anguria di Bagnacavallo, asparago violetto Arcoiris, fagiolo cannellino della Valle Umbra, mais pop-corn Biancaneve, melone Moscatello, pomodoro tondino Maremmano, sedano gigante di Romagna. Inoltre ha collaborato con l’Istituto agrario Zanelli di Reggio Emilia per l’iscrizione del melone banana di Lentigione, della zucca cappello da prete reggiana, dell’anguria Santa Vittoria e il melone da mostarda. Queste sementi le moltiplichiamo nelle zone di origine e le mettiamo in commercio a disposizione di chi voglia avere la biodiversità in campo. Inoltre lavoriamo con i cereali su due diversi livelli: il recupero delle varietà della tradizione italiana (dette anche varietà antiche) e con le “popolazioni” che sono un insieme di frumenti che vengono lasciati evolvere sul campo di coltura.
In relazione alle varietà antiche, si tratta di frumenti realizzati durante l’epoca fascista, ma non solo, molte di esse provengono direttamente dai contadini che le hanno coltivate nel tempo senza mai dismetterle. Nel periodo fascista di autarchia, i genetisti hanno svolto un lavoro veramente egregio. Questi scienziati del passato, avevano creato varietà interessanti non solo utilizzando materiale nazionale ma incrociando anche materiale estero. Naturalmente quelle varietà erano adatte per l’alimentazione di quell’epoca e per le tecniche colturali del tempo, in altre parole davano delle risposte idonee alle esigenze di quel momento storico. Tutte queste varietà della tradizione italiana sono poi andate perdute perché le esigenze moderne dei fornai e dell’industria in genere richiedono varietà differenti. Sono varietà che oggi, con le tecniche moderne, sono molto meno produttive, ma vengono riscoperte perché più tollerate dall’organismo umano. Hanno, infatti, un glutine che è molto più digeribile rispetto a quelle delle varietà moderne. In Italia le intolleranze alimentari aumentano continuamente, e non parlo dei celiaci conclamati ma delle persone che sono intolleranti al glutine, che provoca gonfiori ed altri sintomi, disturbi che emergono con sempre più evidenza. Pensiamo solo a quante persone non digeriscono più la pizza! Questi grani antichi, che hanno meno resa, hanno però la peculiarità di avere un glutine più digeribile che irrita meno i villi intestinali. Inoltre c’è anche un aspetto che coinvolge il gusto: molti percepiscono un gusto differente rispetto ai frumenti moderni, più connotato.
Grazie al nostro coinvolgimento sul progetto, abbiamo a catalogo sei varietà, recuperate da noi e da altri, e in più lavoriamo anche con un altro concetto che è quello delle “popolazioni” come accennato prima. Spiego di cosa si tratta. Se guardiamo un campo di grano, osserviamo che tutte le spighe sono uguali. Colore, altezza, tipologia della spiga e del chicco: stiamo guardando un campo di una singola varietà. Il concetto di popolazioni invece è diverso: le popolazioni sono il frutto di incroci fra differenti varietà di frumento per ottenere un’elevata variabilità genetica. Ne consegue che nei campi coltivati con le popolazioni vedremo una spiga più grande, una più piccola, una più chiara, l’altra più dorata, ecc., tutte insieme all’interno dello stesso campo. Quest’ ampia variabilità genetica è una delle risposte ai danni provocati dai cambiamenti climatici a cui possiamo rimediare in modo naturale. È ormai sotto gli occhi di tutti che il clima è cambiato, le estati sono sempre più secche, le precipitazioni anomale, le temperature non conformi alle medie di stagione. Utilizzare le popolazioni significa, quindi, che se invece di coltivare un’unica varietà impieghiamo una popolazione con differenti genotipi, nel caso in cui un anno sia particolarmente secco, tutti i semi che si adattano meglio alla siccità producono. Se invece ci troviamo ad affrontare un’annata molto umida, sfruttiamo al meglio quelle sementi che sono abituate all’umidità. Ne consegue che qualsiasi tipo di clima ci troviamo ad affrontare, alla fine possiamo contare almeno su una produzione. Naturalmente parliamo di un’agricoltura biologica, senza concimi chimici né antiparassitari: le sementi devono quindi avere una certa rusticità e resistenza. Questo è il concetto delle popolazioni, un concetto all’avanguardia che vuole rispondere ai cambiamenti climatici non con gli OGM ma utilizzando la natura.
Siamo molto coinvolti in questo progetto e le nostre popolazioni, sia di frumento tenero sia di frumento duro, sono formate da incroci di grani della tradizione italiana frutto del lavoro del Prof. Stefano Benedettelli dell’Università di Firenze e dal Prof. Giovanni Dinelli dell’Università di Bologna. Questi due docenti, insieme ai ricercatori internazionali Stefania Grando e Salvatore Ceccarelli (che sono coloro che per primi hanno sperimentato le popolazioni prima in Siria e poi in Italia) sono considerati i padri delle popolazioni italiane.
Perché nel nostro paese, che detiene il 50% della biodiversità europea delle ortive, non è valorizzato questo patrimonio? È vero che gli inglesi sono riusciti persino a registrare come loro patrimonio il cavolo nero della Toscana? Davvero non siamo in grado di valorizzare le nostre diversità?
Il problema è che noi abbiamo talmente tanto materiale, da essere nella impossibilità di gestirlo tutto ed è ovvio che qualcuno ne approfitta. Oltre ad Arcoiris e al lavoro svolto con le Università, bisogna pensare che ci sono anche altre associazioni che difendono la biodiversità ad esempio la Rete Semi Rurali (visita il sito) di cui Arcoiris è socia. Si tratta di un’associazione che promuove la gestione dinamica e collettiva della diversità agricola per una transizione agroecologica della nostra agricoltura. Poi ci sono su tutto il territorio nazionale altre associazioni, alcune socie della Rete, che hanno creato le Case delle Sementi con danno la possibilità di entrare in possesso di sementi a rischio di estinzione che i produttori custodi continuano a moltiplicare. Le Case delle Sementi giocano un ruolo fondamentale all’interno dei nuovi sistemi sementieri diversificati perché facilitano l’uso e la coltivazione della diversità da parte di agricoltori, hobbisti e cittadini. Nelle Case si identifica, si seleziona, si conserva e si mettono a disposizione semi resilienti a chiunque ne faccia richiesta. C’è un gran fermento intorno alle Università e a queste associazioni che cercano di tutelare la nostra biodiversità! Anche Slow Food opera in questo senso. Questo lavoro così capillare e impegnativo magari non è conosciuto dalla maggior parte delle persone ma vive ed è diffuso sul territorio. Un impegno cui bisognerebbe dare più enfasi e visibilità, sia a quello della Case delle sementi e alla Rete Semi Rurale che alle istituzioni pubbliche e private che lavorano nel recupero delle varietà antiche. C’è tanto di quel lavoro da fare con le nostre biodiversità che è normale che qualcosa scappi e che all’estero lo portino avanti perché noi non abbiamo le risorse per farlo. Bisogna poi tener presente che molti ibridi creati dagli americani, ad esempio le zucche, nascono dal patrimonio genetico italiano. Altro esempio: gli australiani hanno realizzato un trifoglio sotterraneo partendo da un genotipo sardo. È ovvio che con un patrimonio genetico così vasto questi “furti” non possono essere considerati tali ma piuttosto un aiuto a mantenere in vita queste biodiversità. Sarebbe però auspicabile che le associazioni che si adoperano per salvare il patrimonio genetico fossero maggiormente valorizzate e sostenute economicamente per continuare a portare avanti il loro prezioso lavoro.
Nell’aprile del 2017 avete lanciato un grande progetto per salvaguardare circa 50 varietà di semi di ortaggi tradizionali italiani, destinati a scomparire. Quali risultati avete ottenuto e quali i “salvataggi” più interessanti.
È un progetto Eataly con la collaborazione di Slow Food: una linea di sementi dedicata che si trova solo nei negozi Eataly. Il primo che abbiamo salvato è stato il fagiolo della Valle Umbra, poi l’anguria di Faenza. Il fagiolo della Valle Umbra ha un percorso interessante perché era un fagiolino che veniva seminato dai mezzadri in secondo raccolto. Il mezzadro doveva dare al proprietario una parte della produzione, però vi era una regola che dava la possibilità al mezzadro di tenersi la produzione ottenuta tra il secondo raccolto e i primi di novembre. Di conseguenza questi fagiolini sono stati selezionati per essere prodotti in questo periodo. Considerata la miseria in cui vivevano era un bene di grande importanza. E selezionando questi fagiolini selezionarono anche un’eccellenza della tipologia, una specie molto buona, con la buccia sottile che si cuoceva perfettamente. Questo fagiolino è un parente del famoso e pregiato “Verdino di Cave” di Cave di Foligno (PG) che si può gustare durante la “Sagra del fagiolo” che si tiene a Cave il secondo e il terzo fine settimana di ottobre di ogni anno. L’anguria di Faenza invece è un’anguria molto piccola, contrariamente a quelle degli anni ’50 e ’60 che erano grandi, e tra le più dolci. L’anguria di Bagnacavallo, ad esempio, ha una storia intrigante. I suoi semi si erano persi. Il loro ritrovamento ha dell’incredibile, infatti sono stati ritrovati per puro caso in Canada! Come mai? Perché alcuni migranti di Bagnacavallo si erano portati dietro i semi e li avevano riprodotti nella loro nuova patria. È stato così possibile riportarli dal Canada per ricreare questa varietà nel suo Paese di origine.
Incontrate molte difficoltà a condividere con i coltivatori diretti questi obiettivi oppure è maturata nel tempo maggiore consapevolezza del patrimonio sementiero che vi adoperate per salvare?
Noi ci muoviamo nell’ambiente dell’agricoltura biologica e già questo crea una notevole scrematura dei nostri interlocutori. Bisogna comunque dire che ci sono produttori non biologici che sono molto sensibili al tema della preservazione della biodiversità. C’è poi un’altra discriminante. Ci sono piccoli produttori che fanno i mercati o le vendite dirette che sono più sensibili a queste tematiche rispetto ad altri. I giovani sono ancora più motivati al ritorno all’agricoltura cui stiamo assistendo negli ultimi anni. Fino a 20/30 anni fa, fare il coltivatore diretto non era considerato un mestiere appetibile. Oggi fare il contadino, soprattutto biologico, fa tendenza. Alcuni giovani addirittura abbandonano il cosiddetto posto fisso per fare gli agricoltori. È una generazione molto più istruita che percepisce all’interno dell’agricoltura un valore aggiunto, molto più forte di qualche anno fa. Questi nuovi agricoltori, più ricettivi e consapevoli, sono grandi estimatori delle vecchie varietà. Sono agricoltori che vendono direttamente, fanno i mercati del biologico e preferiscono utilizzare questi prodotti perché soddisfano quel consumatore che preferisce farsi un po’ di strada per trovare un ortaggio che abbia sapori e qualità superiori a quello che trova nel negozio sotto casa. L’ortaggio che nasce da varietà antiche, pur avendo un sapore superiore e caratteristiche nutrizionali che ne fanno un prodotto di eccellenza, a differenza delle moderne colture non riesce a sostenere i tempi della filiera lunga. Per spiegare meglio, nella filiera lunga un pomodoro che parte dalla Sicilia può stare in giro 15/20 giorni prima di arrivare sulla nostra tavola. Lo stesso vale per altri ortaggi come le carote che non sanno di niente, o il finocchio che è tutto acqua e niente sapore. Parliamo di filiere che partono anche dall’estero e che si sono allungate moltissimo negli ultimi tempi. Invece le vecchie produzioni avevano una filiera cortissima, locale, perché un pomodoro durava al massimo 4/5 giorni, 10 al massimo. Quindi veniva raccolto quando era maturo, arrivava nel negozio sotto casa, quelli che chiamiamo ora negozi di prossimità, e compariva sulla nostra tavola portando un sapore completamente diverso. Lo stesso vale per i prodotti di queste sementi recuperate, sementi che hanno la “fragilità” di generare prodotti che vanno raccolti maturi e non possono essere tenuti in frigo o conservati più di tanto, devono essere venduti dal produttore in tempo breve. Chi si abitua a questi sapori non ha difficoltà, per procurarselo, a ritornare anche più volte dal coltivatore diretto. Ovviamente un produttore che ha un accordo con la grande distribuzione o un mercato generale che gli impongono determinati standard produttivi non può permettersi il lusso di utilizzare queste sementi perché non sarebbe competitivo.
Si parla molto, e con crescente preoccupazione, della scomparsa delle api. Voi avete ideato il progetto Bee free, 100 ettari per il futuro delle api. In che cosa consiste e quali saranno gli sviluppi?
Non è proprio un nostro progetto, vi partecipiamo con la messa a punto di una miscela di sementi adatte a generare una fioritura che soddisfi le esigenze delle api. La caratteristica principale è che queste sementi provengono solo da produttori italiani perché Eataly, con il supporto di Slow Food, che è il motore di questa iniziativa, chiede espressamente che le sementi siano prodotte in Italia. I cento ettari produttivi sono localizzati in tutta l’Italia, ad esempio in Emilia si trovano produttori a Modena e a Lizzano in Belvedere.
Il Progetto Liveseed si prefigge invece lo scopo di promuovere le sementi biologiche in modo che l’agricoltura che si basa su questo principio, sia praticata nella massima purezza. In cosa consiste il vostro contributo?
Si tratta di un’iniziativa, in collaborazione con la Rete Semi Rurali, basata su un progetto europeo molto articolato. Arcoiris in Italia ha partecipato nella sperimentazione triennale di pomodoro, secondo il concetto delle popolazioni che ho spiegato prima. È stata fatta la sperimentazione a Sestola, nel Molise e con due realtà lucane, una a Rotonda e l’altra a Castronuovo di Sant’Andrea. Il prodotto ottenuto è stato riconosciuto di grande valore sia dal punto di vista della coltivazione che per le caratteristiche organolettiche.
Fra le vostre attività c’è anche quella di sovesci, una speciale tipologia di concimazione del terreno che avviene tramite l’interramento di specifiche piante. Ci può fare un esempio e come funziona esattamente?
Il terreno può essere concimato in vari modi: il sovescio è uno di questi. Quando la pianura padana era piena di stalle, il terreno veniva concimato con il letame. Quando le stalle hanno cominciato a ridursi e di letame non ce ne era più a sufficienza, si è integrato con i concimi chimici che alla fine hanno preso il sopravvento. Da qualche anno si utilizza il sovescio, detta anche concimazione verde, che è un insieme di piante che hanno determinate funzioni, tra le quali apportare azoto e migliorare la struttura del terreno potenziandolo con gli elementi chimici necessari. Sono miscele studiate appositamente che vengono seminate generalmente in autunno per poi essere trinciate e incorporate nel terreno durante la primavera. È l’alternativa al letame (quando c’è carenza) e soprattutto al concime chimico. Viene usato principalmente nell’agricoltura biologica anche se abbiamo notato che molti nostri clienti, soprattutto i vignaioli, anche se non producono in regime biologico comprano i sovesci perché riscontrano miglioramenti interessanti nei vigneti sia a livello di proprietà organolettiche delle uve ma soprattutto sulla fertilità del terreno.
Nel 2015 con Orti in Condotta è nata la vostra collaborazione con Slow Food. In cosa consiste e quali sono i risultati che avete ottenuto?
È un’iniziativa che ci ha dato molte soddisfazioni. Consisteva nel fornire delle sementi antiche e locali a Slow Food che poi le distribuiva in un progetto didattico nelle scuole. Molti ragazzi si sono avvicinati al tema delle ortive e delle specie da recuperare: soprattutto per i bambini più piccoli è stata una vera educazione all’alimentazione più sana. Slow Food li ha sensibilizzati alla tutela dell’ambiente facendogli toccare con mano l’importanza del recupero delle antiche varietà a rischio d’estinzione e della valorizzazione di un patrimonio naturale che fa parte del territorio in cui vivono.