Preservare la vita delle api e il loro ambiente è proteggere il sistema ecologico che è alla base della nostra stessa alimentazione.
Intervista di Anna Magli Zandegiacomo ad
Antonio Nanetti: ricercatore del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (CREA).
Antonio Nanetti è ricercatore a tempo indeterminato del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (CREA). Presta servizio presso il Centro di Ricerca Agricoltura e Ambiente (CREA-AA), sede di Bologna.
L’interazione tra api, pesticidi e altre condizioni avverse preoccupano gli scienziati, che ripetano da tempo che agire è ormai una priorità. Lei è d’accordo Dottor Nanetti e perché le api sono così importanti per far funzionare il nostro ecosistema?
L’importanza delle api deriva dal loro ruolo di protagoniste in uno dei più riusciti esperimenti prodotti dalla natura nel corso della storia dell’evoluzione degli esseri viventi, ossia la simbiosi tra le piante e gli insetti.
Le piante, inserendo nei fiori una piccola ricompensa zuccherina, hanno guadagnato la dedizione degli insetti, che hanno così assunto la funzione di impollinatori; viceversa, gli insetti si sono adattati a sfruttare queste fonti alimentari che, oltre a ricompensare il loro lavoro, contribuivano alla sussistenza e allo sviluppo delle loro popolazioni. Si ritiene che questo silenzioso accordo abbia caratterizzato gli ultimi 130 milioni di anni circa, generando un’esplosione di biodiversità vegetale e animale. Si tratta forse di una delle più grandi idee che la natura ha partorito: in base ad una preferenza del tutto personale, la metterei al secondo posto, dopo la fotosintesi clorofilliana.
Alla base di questo scambio tra mondo animale e mondo vegetale c’è l’origine di gran parte della catena alimentare terrestre. Le api, attraverso il loro lavoro, sono responsabili della produzione di moltissimi alimenti che noi consumiamo direttamente o indirettamente, sotto forma di alimenti derivati dalle piante impollinate dalle api.
Si parla di una drastica riduzione nella presenza api, perché?
Da parecchi anni ci siamo accorti del declino delle popolazioni di impollinatori in generale e, fra questi, delle api.
Nel parlare comune, il termine “api” coincide con una specie in particolare, l’ape mellifera, che è quella allevata dagli apicoltori negli alveari e cui si deve gran parte della produzione di miele a livello globale. Tuttavia, la situazione è assai più articolata.
Più correttamente, il termine deve applicarsi alle circa 20.000 specie di api che oggi conosciamo nel mondo, molte delle quali conducono vita solitaria o costituiscono società molto meno elaborate di quelle delle api mellifere. Si conta che in Italia esistano circa mille specie di queste api che possiamo definire “selvatiche”, il che rende il nostro paese un centro di biodiversità straordinariamente importante.
Il rischio ecologico di cui stiamo parlando riguarda soprattutto le api selvatiche, il cui ruolo fondamentale è in pericolo a causa di fattori ambientali in rapido cambiamento, purtroppo a loro sfavore. Le api mellifere hanno altri problemi, ma occorre considerare che queste si avvantaggiano della protezione degli apicoltori che, per motivi ovvi, cercano di sottrarle dai rischi ambientali più gravi.
È difficile riassumere questo calo con un numero preciso. Possiamo però desumere un quadro di generale, progressivo declino dai molti studi puntuali di cui disponiamo, e che in genere considerano aree definite o soltanto una parte di questo enorme patrimonio di specie diverse.
Quali sono le cause di questo declino?
I fattori sono sicuramente moltissimi, io ne individuo tre principali:
– L’uso dei pesticidi. L’agricoltura e altre attività umane utilizzano pesticidi spesso assai tossici e persistenti nell’ambiente, privi della necessaria selettività per le specie di insetti utili.
– Le malattie. La globalizzazione comporta l’introduzione di patogeni, parassiti e predatori in grado di adattarsi alle nuove condizioni e ai nuovi ospiti meglio di quanto non riescano a fare le api nei loro confronti.
– Il cambio climatico. Le api sono strettamente legate all’ambiente, anche attraverso il mutualismo con le piante. Il riscaldamento globale pone sotto stress questa associazione, le cui controparti rischiano di non reagire alla stessa maniera, trovandosi così fuori sincronia. Il disaccoppiamento fenologico fra piante e impollinatori può generare effetti negativi per entrambi: per le piante, che mancano dell’impollinazione necessaria, e per le api, che non ottengono le risorse nutritive necessario al loro sviluppo.
Quale azione può fare l’uomo per contrastare o limitare i danni determinati da questi fattori?
Certamente sarebbe importante utilizzare i pesticidi con maggior oculatezza: il loro uso è spesso eccessivo e indiscriminato. Anche in assenza di mortalità acute ed evidenti, queste sostanze spesso agiscono in modo subdolo, indebolendo le api e rendendole più vulnerabili ad altri fattori di stress come le malattie o le difficoltà ambientali di tipo climatico. I pesticidi agiscono in modo sottile, spesso imprevedibile, e andrebbero utilizzati con cautela.
Negli ambienti agricoli, un’altra forma di protezione di api e impollinatori in genere è la costituzione di zone protette, prive degli interventi dell’agricoltura intensiva ed eventualmente seminate con specie vegetali appetite dalle api. Queste zone di protezione della biodiversità fanno parte della visione tipica dell’agricoltura biologica, ma possono ritrovarsi anche in terreni soggetti ad agricoltura convenzionale.
Occorre osservare che queste aree in cui si concentrano risorse e luoghi di nidificazione degli impollinatori hanno un’importanza non solo ecologica ma anche tecnica, essendo fondamentale per il successo delle produzioni agricole il mantenimento di una vitale e variata entomofauna pronuba.
Il rapporto tra api e apicoltore è un rapporto alla pari o si può parlare di sfruttamento della specie?
Le api mellifere sono una specie selvatica allevata dall’uomo. Ciò implica il fatto che questi insetti non siano adattati alle modalità di vita imposte dall’uomo. Ritornate allo stato selvatico, le api riprendono i comportamenti naturali tipici della loro specie.
Un caso tipico di questo disadattamento sono le arnie impiegate dagli apicoltori. Esse sono molto comode all’uomo, ma non completamente adatte alla biologia della colonia d’api. Se potessero scegliere, le api difficilmente nidificherebbero in ricettacoli simili a quelli in cui le obblighiamo a vivere. Lo sfruttamento, d’altronde, è implicito nell’allevamento, ma non è privo di contropartita. Bisogna infatti tenere presente che gli apicoltori, attraverso la loro attività, promuovono la sopravvivenza delle api, ne favoriscono la diffusione e le aiutano a superare i fattori di stress, siano essi di tipo ambientale o patologico.
Quali progetti di ricerca sta portando avanti il CREA per le api?
L’ape mellifera è considerato il terzo animale allevato per importanza economica in Europa. Questa posizione è giustificata non solo dalle produzioni dirette ma, soprattutto, dal contributo che essa offre alla produzione alimentare attraverso l’attività d’impollinazione.
La necessità di proteggere un animale tanto importante ha generato, negli ultimi anni, un’amplificazione dell’offerta di progetti di ricerca da parte degli enti finanziatori pubblici.
Ogni lista è inevitabilmente parziale. Mi limito a elencare due progetti che vede il nostro Centro in primo piano:
– BeeNet. È un progetto di monitoraggio finanziato dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali il cui scopo è valutare la qualità agroambientale attraverso le api. Questi insetti, infatti, esplorano minuziosamente l’ambiente, campionando matrici che il nostro laboratorio analizza per interpretare lo stato di salute dell’ambiente in cui si trovano le colonie. Il progetto è articolato in una rete nazionale di oltre 300 apiari e comprende anche una sezione destinata a rilevare la situazione patologica del nostro patrimonio apistico.
– MediBees. È un progetto di ricerca europeo finanziato dalla Fondazione PRIMA, finalizzata a sviluppare azioni di partenariato di ricerca fra i paesi mediterranei. Il progetto intende studiare le caratteristiche biologiche, fisiologiche e genetiche alla base di vulnerabilità e resilienza agli stress climatici delle varie sottospecie di ape mellifera presenti nei paesi coinvolti. Questi rappresentano i tre litorali mediterranei: quello europeo, asiatico e africano. Le acquisizioni sugli aspetti genetici menzionati creeranno la conoscenza necessaria alla selezione di ceppi di api meno suscettibili agli stress climatici.
Approfondiamo l’aspetto che voi scienziati chiamate “spillover”, ossia il passaggio di patogeni dalle api mellifere alle api selvatiche. Da dove arrivano questi patogeni e come avviene questo passaggio?
Seguendo la terminologia comune, “spillover” indica il fenomeno attraverso cui un patogeno passa da un ospite a un altro. Il quadro patologico associato alle api mellifere è cambiato drasticamente negli ultimi decenni a causa del movimento di patogeni esotici che si sono adattati alle nuove condizioni ambientali e ai nuovi ospiti. Il caso più eclatante è rappresentato dall’acaro Varroa destructor che, originario dell’ape mellifera orientale, ha gradualmente raggiunto tutti i continenti abitati (in cui è presente l’ape mellifera occidentale, quella di cui abbiamo parlato finora) con il determinante contributo umano, causando danni incalcolabili. In anni successivi, il fungo unicellulare Nosema ceranae, il parassita Aethina tumida e il predatore Vespa velutina hanno seguito probabilmente strade non molto diverse da quella indicata per raggiungere il nostro e altri continenti a partire dalle zone d’origine. I maggior indiziati, di nuovo, sono l’uomo e le attività umane.
In realtà lo spillover è un fenomeno assai intricato e non limitato alle specie che ho menzionato come esempio. Tuttavia, la plasticità che permette a nuove avversità di colpire le api mellifere si estende spesso anche ad altri ospiti, come le varie specie di api selvatiche, aggiungendo ai danni economici per l’apicoltura la preoccupazione per le conseguenze ecologiche sugli impollinatori selvatici e le piante da essi impollinate.
Mentre per il cambiamento climatico possiamo fare ben poco, sullo spillover è possibile un intervento umano?
Le azioni di mitigazione dei cambi climatici richiedono misure collettive mediate dai decisori politici, volte da un lato alla riduzione delle emissioni, dall’altro alla rimozione di CO2 presente nell’aria. Occorre considerare che le api, per la loro azione di impollinazione, contribuiscono alla costruzione di nuova biomassa derivante dalla organicazione della CO2 atmosferica, parte della quale è destinata a ritornare nel suolo. Dobbiamo quindi vedere le api come nostri alleati nella battaglia contro i cambi climatici e le misure di protezione degli impollinatori in linea con le azioni di mitigazione del clima, sebbene di per sé probabilmente non sufficienti.
La trasmissione di parassiti e patogeni dalle api mellifere a quelle selvatiche è un problema complesso, con ripercussioni ecologiche poco note e potenzialmente gravi. Le specie selvatiche possono costituire serbatoi di reinfezione e/o reinfestazione delle api mellifere, generando circuiti di spillover e spillback.
Purtroppo, la situazione è difficilmente rimediabile: anche disponendo di farmaci adeguati, sarebbe praticamente impossibile intervenire sulle specie selvatiche. È invece possibile intervenire sulla salute degli allevamenti apistici. Gli aspetti di patologia delle api mellifere smettono così di essere di puro interesse dell’apicoltore, mentre prende importanza una visione One Health, di salute circolare. Il problema dello spillover pone l’accento sulla funzione dell’apicoltura come responsabile della salute ambientale, di cui essa diviene garante attraverso una scrupolosa gestione delle malattie delle api mellifere.
C’è qualcosa che ognuno di noi, nella dimensione del suo terrazzo, orto o giardino può fare, anche di piccolo, per aiutare le api selvatiche a nutrirsi e quindi non estinguersi?
Naturalmente, l’efficacia delle misure di salvaguardia è in relazione diretta con la scala della loro applicazione. Tuttavia, già il fatto di porsi il problema indica un’attitudine culturale che merita di essere promossa e diffusa.
Occorre ricordare che molte specie di api selvatiche nidificano nel terreno e che i nidi, dopo le prime fasi di accudimento, vengono lasciati a sé per lungo tempo. La salvaguardia dei nidi, e quindi della generazione di api seguente, richiede l’esecuzione di lavorazioni del terreno minime e solo ove necessario. Giova inoltre la semina di essenze da fiore, possibilmente autoctone e miscelate in modo tale da avere una fioritura continua e variata per tutta la stagione attiva. Va inoltre ricordato il problema dei pesticidi: la loro azione va in genere ben al di là della semplice eliminazione delle specie indesiderate. In molti casi, piccoli appezzamenti possono fare completamente a meno dell’uso di insetticidi, la cui azione si ripercuoterebbe inevitabilmente sulla sopravvivenza degli insetti utili, le api selvatiche fra queste.