La Natura è un’amica esigente che non tradisce mai.
Il valore emozionale del giardinaggio.
Intervista di Anna Magli Zandegiacomo a
Carlo Pagani, il “maestro giardiniere” per antonomasia: divulgatore del giardinaggio, esperto di piante, conduttore di trasmissioni televisive e autore di numerosi testi sull’argomento.
Intervista a Carlo Pagani, il “maestro giardiniere” per antonomasia: divulgatore del giardinaggio come cultura, oltre che grandissimo appassionato ed esperto di piante, conduttore di importanti trasmissioni televisive e autore di numerosi testi sull’argomento.
La garden therapy ha dimostrato negli ultimi anni tutte le sue potenzialità, sia per patologie mentali che per il benessere generale delle persone che decidono di dedicarsi alla cura delle piante come momento rigenerativo. Quali sono le virtù terapeutiche del giardinaggio?
Ci sono due modi per coltivare un giardino. Il primo è quello dell’esteta, che crea il giardino rappresentativo, un giardino che serve a far vedere, a dimostrare le proprie abilità. Poi c’è il giardino da vivere, che non deve necessariamente essere mostrato come trofeo ma vissuto profondamente. Un giardino dove ti raccogli per leggere il giornale, per incontrare gli amici, per restare solo con i tuoi pensieri. Il primo è il giardino dell’architetto o del garden designer, il secondo è il giardino del pittore, del poeta, dell’uomo che crea per sé stesso. Il giardino di chi ha scelto di costruirsi un angolo di verde per viverselo, per ritrovarsi. Nel primo caso il giardiniere sceglie di prevalere sulla natura, di dimostrare che è capace di educare la natura e di piegarla ai suoi desideri. Nel secondo caso è il contrario: è un giardino dove un animo gentile cerca comprensione nella natura e la accetta per come è . Per esperienza il secondo modello è quello che persegue la maggioranza delle persone che amano il verde. Lo vedo nel mio lavoro di maestro giardiniere ma lo ritrovo anche nei miei lettori di Gardenia che mi scrivono parlando con affetto del loro giardino o del loro balcone. I benefici del giardino sono tanti e si manifestano in modo diverso dalle esigenze di chi lo pratica. Come se ci fosse una risposta specifica da parte della natura per il tipo di conforto che le viene richiesto. Sono tante le persone che anche se impegnate nel lavoro scelgono di cimentarsi con il giardinaggio nel loro tempo libero. Si danno da fare, si informano, faticano e scaricano tutta la loro stanchezza mentale in un lavoro manuale che sanno gli darà soddisfazione e anche felicità. Chi si fa il giardino da solo è un amante della natura, che gli dedica tutto il tempo a disposizione ed è necessariamente una persona che mette in pratica le famose tre P del giardiniere: passione, pazienza, perseveranza. Passione perché se manca quella nessuna cosa può riuscire bene. Pazienza perché la natura ne chiede tanta: quello che le chiedi te lo dà solo quando lo decide lei, con i suoi tempi. Perseveranza perché la natura richiede un’attenzione continua, come tutte le cose cui si tiene veramente, direi quasi una dedizione. La cura delle piante ci procura benessere perché si crea un rapporto stretto, uno scambio di reciproca cura e comprensione. La pianta è come un essere vivente, come gli esseri umani e gli animali. Per crescere ha bisogno di avere le condizioni giuste, i trattamenti più indicati, le accortezze e le gentilezze necessarie, la consapevolezza dell’impegno che, chi si dedica al giardinaggio, deve possedere ancora prima di iniziare. Chiunque crei un giardino, e se lo crea da solo, è architetto di piccoli paesaggi, ognuno con la sua personalità, che messi tutti insieme diventano un unico grande paesaggio ed esprimono l’amore per l’ambiente. Oggi in molti si riempiono la bocca di questa parola, il paesaggio, in realtà i veri artefici del paesaggio sono quelli, umili, che conoscono la natura e le si dedicano con rispetto e con un approccio affettuoso tenendo in considerazione le sue esigenze.
Gli amanti del giardinaggio sono in aumento. Da dove nasce questa tendenza?
La mia esperienza del confronto con i lettori e i fruitori di riviste e trasmissioni televisive specializzate, mi dice che il trend è in crescita, con consapevolezza e sempre più maggior voglia di natura. E la voglia di portarsi la natura in casa, dopo che passiamo la maggior parte della nostra vita chiusi fra quattro mura, che fa esplodere il desiderio di verde e bellezza. E così chi può, ma c’è anche chi si accontenta di un balcone, cerca di crearsi il suo angolo di paradiso , dove posare lo sguardo e trovare pace. Il rapporto fra uomo e natura è un rapporto molto più complesso di quello che si pensa. Le piante avvertono la presenza dell’uomo e percepiscono quando qualcuno fa qualcosa per loro. Ci sono giardini che dopo due anni dalla loro realizzazione, da parte di mani esperte, sono immobili, delle stesse dimensioni , senza lo sviluppo che le piante e il fogliame avrebbe dovuto avere. Questo perché, una volta passato il testimone dal giardiniere al proprietario, magari distratto e incapace, la pianta non ha avuto più nessuna sollecitazione a crescere, avverte che non le viene riservata la cura che le aiuterebbe a svilupparsi in modo armonioso. Basta veramente poco per accorgersi delle loro esigenze: passeggiare nel giardino ed osservarle per capire di cosa hanno bisogno, intuire le loro necessità. Se questo non succede la pianta ne risente. Esiste poi anche il problema della convivenza fra le piante, un aspetto molto interessante da osservare . Le piante tra di loro comunicano, hanno le loro preferenze fra chi vogliono vicino e chi invece non gradiscono. Ci sono piante che stanno così bene vicine che durante la loro crescita si abbracciano a vicenda. Quindi anche qui, il segreto è assecondare la natura.
Ci sono però specie selvagge, come quelle che lei ha recuperato in Appennino e in luoghi abbandonati, che hanno una disposizione a crescere senza nessun tipo di cura.
Certo, perché sono piante cresciute nell’abbandono , che sono diventate forti e resistenti proprio per il fatto che sapevano di non poter contare su nessuno. Come accade anche alle persone, a certi bambini che crescono senza affetti e sanno di doversela cavare da soli fin da piccoli. Cito le rose, perché è il fiore che io amo di più. Le rose galliche, come l’Alba, la Damascena e la Centifolia, sono quelle rose selvatiche che crescono proprio nei punti più impervi e impensabili. In genere le rose per crescere hanno bisogno del terriccio giusto, della corretta esposizione al sole e tante altre attenzioni. Queste invece nascono nei luoghi incolti, come i cimiteri abbandonati, in posti impensabili. Quando una pianta abbandonata riesce a sopravvivere, fiorire e generare è perché ha dovuto combattere ed adeguarsi. Nei miei ultimi anni di attività c’è stato un esercizio costante dedicato a creare giardini con una miscela di piante nobili, cioè le classiche piante da giardino come la magnolia giapponese ecc, con le piante selvagge. Con il tempo si sono visti risultati incredibili. Ho fatto del mio bosco la mia palestra, dove ho cercato di mettere insieme queste piante e studiare la loro reazione. Le piante nobili si adattano a vivere con il sambuco, con i rovi, con gli arbusti più disparati in armonia. Il giardino che genera la natura stessa, in autonomia, è quello che il vero giardiniere, quello di cuore non di testa, desidera riprodurre nel suo giardino. Ho conosciuto recentemente una pittrice inglese che ha deciso di venire a vivere in Toscana in un casolare in mezzo ad un uliveto abbandonato, dove ha creato un piccolo giardino di 100 mq che sembra un quadro, tanto è ordinato e perfetto. Sembra quasi che la natura abbia voluto concentrare in quel fazzoletto di terra tutta la sua magia. Il tutto contestualizzato in un ambiente selvaggio, incolto eppure pronto ad ospitale questa meraviglia. Uno dei segreti per creare questi luoghi magici è quello di non distaccarsi dal luogo in cui le piante hanno origine. Il mio insegnante, l’architetto del paesaggio di fama mondiale Pietro Porcinai, mi diceva sempre che prima di fare un giardino bisogna guardare intorno e vedere le piante che vivono in quel luogo. Il segreto del successo è utilizzare quelle piante, disponendole con un criterio armonioso per creare una vista piacevole.
Fra le sue scelte “botanicamente sostenibili” c’è stata anche quella di recuperare molti frutti antichi ormai scomparsi dalle nostre tavole.
Il significato del recuperare queste vecchie varietà è quello di salvaguardare un patrimonio genetico che altrimenti sarebbe andato perso. Ma soprattutto è un recupero di sapori. E i sapori di un tempo se non si recuperano spariscono completamente ed è una perdita incommensurabile e scellerata. Pensare di perdere un sapore. Pazzesco. E’ una parte di noi, della nostra storia. C’erano varietà e varietà di frutta, soprattutto mele, che non esistono più. Perché sono scomparse, perché nessuno ha fatto qualcosa per tutelarle? Semplicemente perché viviamo un’alimentazione che è programmata dalla grande industria della trasformazione e dalla distribuzione. Sono loro che decidono quello che dobbiamo mangiare. Le vecchie mele da sapori perduti non hanno una resa produttiva come hanno le nuove varietà. Non hanno le stesse caratteristiche organolettiche né la resistenza alla frigoconservazione. Oggi le mele si raccolgono quasi acerbe e si mettono nelle grandi celle frigorifere da dove vengono tolte man mano che ci crea la richiesta. Vengono passate con l’anidride carbonica per farle maturare in fretta ed il sapore si perde completamente. Gli unici che riescono a tutelare un minimo le specie antiche, come le mele limoncelle, sono le aziende agrituristiche, gestite con un’agricoltura di nicchia che riesce a creare un frutteto, o un pometo come si diceva una volta, di frutta o di mele non di grande consumo. Il loro frutteto fa parte dell’offerta turistica e cattura l’interesse dell’ospite come un valore aggiunto. Questi sono gli unici, oltre a chi acquista nei vivai i vecchi cultivar, a tutelare la frutta antica. Chi si crea un giardino di una certe metratura infatti, prevede sempre un piccolo frutteto per consumo familiare perché anche quello è un pezzo di natura che si vuole portare a casa, a propria disposizione. Perciò se si decide, per esempio, di piantare una pera, non si sceglie quella che puoi trovare al supermercato o dal fruttivendolo, ma una pera che abbia una storia ed un sapore che non si è più in grado di recuperare nei normali canali di vendita.
Come ha iniziato questo suo lavoro di archeologo botanico?
All’inizio localmente. Ho cominciato perché ho un’infanzia che mi lega alla campagna e volevo ritrovare quei frutti che ma la ricordavano, quelli che avevo perso di vista. Poi mi son imbattuto in una vecchia varietà di mela, l’Abbondanza, che mi ha suscitato tanti ricordi e da quel momento ho cominciato la ricerca mirata di tutta quella frutta che avevo intorno a casa quando ero ragazzino. L’evoluzione genetica, mezzo secolo fa era molto lenta: inventavano 2 o 3 tipi di mele l’anno mentre ora ogni anno ci sono centinaia di varietà che vengono messe sul mercato perché la genetica lavora freneticamente. Girando per vecchie case diroccate , oltre alla mia provincia anche nelle altre ragioni, ho cercato cosa fosse rimasto di questi antichi frutti. Mi sono documentato, perché ogni regione italiana ha una specifica area frutticola storica da secoli destinata a frutteto. Come la Romagna o il basso ferrarese per l’Emilia Romagna, la zona di Chieti per l’Abruzzo, Biella e Cuneo per il Piemonte. Ogni regione ha un’area vocata per la coltivazione della frutta ed è proprio in queste aree, che ho scoperto, per esempio, un melo che il contadino aveva da oltre un secolo nella sua proprietà e che dava frutti ad oggi introvabili. Un po’ alla volta ho riportato alla riproduzione tutte le varietà tipiche di tutte quelle aree che disegnavano la mappa fruttifera del nostro Paese. Ho recuperato un patrimonio genetico non indifferente, lavorando intorno a circa 400 varietà. Ho avuto molte sorprese in questa ricerca, ritrovando frutti curiosi che non immaginavo neanche che esistessero. Come il biricoccolo, un frutto che quando abbiamo messo in produzione ne hanno parlato tutti , persino Topolino. Frutti che si sono creati da soli, come nel caso appunto del biricoccolo che è un incrocio naturale fra un’albicocca ed una susina, un susina che ha il sapore e la buccia dell’albicocca. O la mela limoncella, che ha un sapore asprigno che ricorda il limone. Quando tu scopri un sapore, la fase successiva dovrebbe essere come utilizzarlo. Ho sempre sperato in questi anni, che nel corso delle trasmissioni televisive di cui sono stato ospite , che ci fosse una certa disponibilità degli chef ad apprezzare e rivalutare questi sapori. Invece la frutta nel menù è scarsamente considerata. I cuochi stellati lavorano molto sui primi, sui secondi e sui dolci, sulla carta dei vini. E quando si arriva alla frutta cosa ti ritrovi? L’ananas! E’ assurdo, con il patrimonio fruttifero che abbiamo in Italia ti viene proposto un frutto tropicale, magari a fettine o a cubetti tutto lavorato che non è certo rappresentativo della nostra cultura alimentare. Negli ultimi anni ho fatto una personale battaglia contro questa tendenza perché sono convinto che la cucina moderna sia responsabile del fatto che della frutta antica, di quella che rappresenta le nostre radici se ne parli poco, anzi è quasi ignorata. La mela limoncella, per esempio, si adatta a meravigliose ricette come quella della mela fritta perché ha un sapore acidulo che si sposa benissimo con l’impanatura. Anche lo strudel. Perché usare sempre la solita mela renetta? Di renette ce ne sono a bizzeffe: quella dei carmelitani, la renetta champagne , la renetta del Canada ed ognuna ha un sapore diverso.
Se un profano volesse avvicinarsi al verde, senza avere particolari competenze, che coltivazioni le consiglierebbe per iniziare ed avere subito quella soddisfazione che lo porterà ad appassionarsi?
Il giardiniere profano, quello che parte dall’abicì, bisogna metterlo in condizione di avere immediatamente dei risultati se no lo perdiamo subito per strada. Il ruolo del maestro giardiniere è di far capire alle persone che non esiste il famigerato “pollice nero” ma che è solo una questione di conoscenza. Tutti, con un minimo di conoscenza possiamo diventare apprezzabili giardinieri. La partenza giusta è quella della coltivazione delle piante erbacee perenni, che vivono in natura, non hanno bisogno di cure particolari e crescono nelle condizioni più disparate ma hanno una fantastica resa ornamentale con interi mesi di fioritura. Le erbacee perenni molto spesso vivono con la metà dell’acqua delle altre piante ornamentali e quindi c’è anche un discorso di giardinaggio ecosostenibile, sono particolarmente resistenti a qualsiasi tipo di malattia, quindi niente pesticidi. Sono piante che crescono in grande scioltezza. Ci sono oltre 1500 tipi di erbacee perenni, con una tavolozza di colori infinita. Mi vengono in mente i geranium – da non confondere con i gerani- con quasi 500 specie e varietà, che fioriscono tutto maggio a giugno e poi riprendono a fine ottobre. Ci sono gli Iris, i Dianthus, i garofanini che nascono sulle Alpi o Appennini, i Sedum, piantine grasse che vivono nella crosta dei tetti, in soli tre o quattro millimetri della polvere che si deposita con l’acqua sulla grondaia che fioriscono durante l’estate e che crescono senza un goccio d’acqua. Da queste coltivazioni basiche, semplici, direi quasi umili, può scattare la scintilla, l’amore per la natura che si manifesta nelle sue forme più elementari ma che regala immediate soddisfazioni. Una passione che cresce, e che non ti abbandona più perché la pianta è viva e ti coinvolge emotivamente nella sua crescita e nella sua necessità di avere attenzioni, la pianta sa davvero creare un rapporto con la persona che se ne prende cura.