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Comunità del grano dell’Alto Appennino: il nostro obiettivo è far rinascere una socialità rurale sostenibile e accogliente.

Intervista di Anna Magli a Matteo Calzolari, fornaio e fondatore della Comunità Grano Alto.

La Comunità del grano dell’Alto Appennino, nasce nel 2019 a Monghidoro, tra Bologna e Firenze. Si tratta di una comunità slow food in senso stretto, un gruppo di persone che lavora insieme e con una propria vita sociale. Il suo obiettivo è di “ridare valore economico, sociale e culturale alla coltivazione dei cereali attraverso il riappropriarsi delle antiche vocazioni del territorio, trasformandole in nuove e moderne opportunità per il futuro. Tornare alla coltivazione della terra per far rinascere una socialità rurale sostenibile e accogliente”. La comunità Grano Alto conta molte persone, con passati e ruoli profondamente diversi, ma con obiettivi paralleli quando non coincidenti. Oltre alle professioni, la comunità Grano Alto si basa su relazioni solide. Partecipare alla comunità significa soprattutto partecipare alla sua vita sociale. Per questo, una volta al mese, i componenti della comunità Grano Alto si incontrano in una veglia, una pratica ripresa dal passato e interpretata in una chiave nuova e moderna. Una volta ci si incontrava nelle stalle o nei granai e si lavorava tutti insieme, piccoli lavori agricoli o accessori per rendere più coesa la comunità e scambiare le idee. Oggi ci si incontra nell’aia – se è estate – o in casa di qualche agricoltore per valutare le tecniche di coltivazione, proporre nuove soluzioni, accordarsi sulla rotazione dei campi. Come funziona la Comunità lo abbiamo chiesto a Matteo Calzolari, del Forno Calzolari di Monghidoro, fornaio e fondatore della Comunità Grano Alto.

Quali sono gli obiettivi che hanno fatto nascere la Comunità del Grano dell’Alto Appennino? Quali traguardi si volevano raggiungere?
La prima raccolta risale al 2003 con la voglia di creare un legame tra quello che si coltivata e il pane che ne sarebbe derivato. Questo legame si era completamente dissolto negli anni ’60 e ’70 con gli agricoltori che coltivavano il grano ma non ne conoscevano la destinazione  ed i panificatori che, a loro volta, facevano il pane senza più sapere da dove arrivasse il grano. Cosa che ancora adesso succede nella maggior parte dei casi.  Nel 2003 abbiamo cercato di invertire la rotta, di ritornare alle origini. Così abbiamo cominciato a coltivare antiche varietà  e abbiamo costituito quella che oggi si definisce una filiera, dandoci delle regole solide. Dopo un po’ questa filiera ha cominciato a starci stretta, perché alla fine dei vari processi una filiera è sempre qualcosa di chiuso; così nel 2019 siamo diventati Comunità  e ci siamo accorti che diventare comunità ha comportato una apertura , anche geografica. Non eravamo più circoscritti al nostro appennino ma entravamo in rete con altre realtà, comunità, sparse in tutto il Paese. Ci siamo  accorti che  questi nostri quasi 20 anni di crescita erano un cammino comune un po’ ovunque, un’esigenza che anche altre comunità avevano prima sentito e  poi soddisfatto.  Quello che perseguiamo adesso è mantenere i risultati raggiunti , per darci un futuro non solo di tipo economico – che rimane sempre la base – ma anche culturale.

Qual è la funzione dei boschi vicino ai campi di grano? Che tipo di valore aggiunto costituiscono?
A me piace dire che i campi di grano in Appennino respirano insieme al bosco, perché non esistono campi estesi in modo artificiale, ma ritagliati tra un bosco e un ruscello, un fosso e una siepe,  incastonati nel paesaggio naturale. Una biodiversità che non è stata costruita, come succede ora, ma che noi ci siamo trovati in modo spontaneo e che vede il grano crescere grazie alla forza di quello che ha attorno. La forza degli animali che risiedono nel bosco ma che vanno nel campo di grano  per  mangiare qualche insetto, la forza dell’acqua dei ruscelli. E’ un grande respiro che arriva dal bosco, che in periodi di  siccità  traspira la sua umidità verso i campi dandogli sollievo. 

Quali sono i grani coltivati? Da dove deriva la scelta della non monovarietà?
Una scelta che deriva da tante motivazioni. La prima è che per fare un pane buono c’è bisogno di tanti tipi di grano tenero, non solo una varietà unica.  Mettere insieme in un campo tante varietà, farle crescere insieme è un modo per farle adattare al clima e al territorio. Sono grani alti, chiamati così per far capire qual’è la differenza che vogliamo evidenziare nei grani antichi. La differenza è proprio l’altezza. Ci sono alcuni grani molto alti, altri un po ‘ meno, una scala che va da 1.50 a 1.80 cm . Quelli un po’ più bassi sorreggono quelli più alti. Durante ogni annata qualcuno si trova meglio, altri peggio ma col tempo si adattano tutti.

Quali altro tipo di coltivazioni possono fare rotazione con quella del grano in queste aree dell’Appennino?
Per tenere a riposo un campo il classico esempio è la coltivazione dell’erba medica. Noi stiamo, però, scommettendo sulle leguminose,  per ridargli il valore che meritano nella nostra alimentazione.  Abbiamo quindi coltivato ceci, ora stiamo provando anche  il grano saraceno, le  lenticchie e, per chi ha animali, anche il favino. 

Come nasce l’esigenza di creare una comunità?
Quando ci siamo accorti che non eravamo solo un gruppo di aziende che stavano lavorando assieme, ma famiglie che stavano ripensando insieme un modo di vivere:  10 famiglie fra agricoltori, fornai, artigiani, e altre professionalità. Per esempio c’è una signora che realizza borse  con il grano Gentil Rosso, utilizzando i gambi mentre i grani vengono immessi nella filiera del pane. La sua è una storia speciale; questa signora si è avvicinata all’agricoltura perché aveva trovato nel magazzino di famiglia un treccino di paglia di grano, vecchio di oltre 60 anni fa ancora perfetto,  e ha iniziato ad utilizzarlo per fare le borse. Quando il treccino si è esaurito,  si è trovata nella necessità di procurarsi il materiale da utilizzare ma non riusciva ad individuare il grano giusto allo scopo. Insieme abbiamo individuato questo Gentil Rosso, che abbiamo seminato e dai cui gambi è stato generato  un nuovo treccino. Nella comunità entrano molte altre professionalità, come il birrificio gestito da alcuni ragazzi che fanno una birra di grano fermentata in botti di legno, un prodotto molto particolare. Abbiamo chi fa mercati e con la rotazione può offrire sempre prodotti diversi nell’arco dell’anno. Poi abbiamo gli allevatori di bestiame. Ognuno porta la sua esperienza e la declina secondo quello che sa fare in un contesto di filiera aperta. C’è anche chi ha un interesse culturale da una prospettiva scientifica, come una studentessa americana che studia queste culture da un punto di vista produttivo. Recentemente c’è stato il recupero e la messa in opera degli antichi forni delle borgate: forni comuni, che fino a qualche decennio fa servivano all’intera comunità  per cuocere ognuno il proprio pane. Ne abbiamo riacceso uno a Ca’ di Guglielmo,  una frazione di Monghidoro, ed è stato un evento veramente potente perché, pur essendo una bene comune, posto al centro della borgata, nessuno si azzardava a riattivarlo e per la comunità è stata una grande scoperta. Adesso ogni tanto lo riattiviamo ed è sempre una festa. 

Che cosa sono le veglie mensili e a che scopo sono state istituite?
Anche la veglia è un riscatto del passato. Tutta questa varietà di persone, diverse nelle loro origini e nelle loro professioni che stanno all’interno della comunità, avevano bisogno di un punto comune per incontrarsi, che andasse oltre gli incontri casuali che avvengono nel corso della giornata. Ci è venuta l’idea di ristabilire il rito della veglia, un’idea che si è rivelata negli ultimi tre anni, generatrice di nuove idee e stimoli.  Trovarsi senza la formalità di una cena o di una riunione, in un contesto informale  come la casa di uno di noi, la sua stalla o la sua aia, ha contribuito al fluire di idee nate dalla naturalezza di una riunione spontanea. Avere del tempo per parlarsi di persona, senza l’interfaccia di un computer, per raccontarsi cosa si vuole fare con l’opportunità  di guardarsi in faccia e sollecitare le riflessioni altrui è impagabile. Un modo per dire “ ci tengo a quello che sto facendo”. Chi vuole fare parte di una comunità deve trovare anche il tempo per stare con gli altri e di mettere in circolo le idee e i sentimenti.