Foraging. Non solo raccolta di erbe ma anche un abbraccio alla natura nel nome del rispetto e della sostenibilità.
Intervista di Anna Magli a Intervista a Valeria Mosca, antropologa culturale.
Molto spesso in passato, soprattutto in tempo di guerra e carestia, si portavano in tavola alimenti poveri, che crescevano spontaneamente in natura e che non subivano alcuna trasformazione. C’è chi ha continuato a farlo, anche senza una stretta necessità, per il gusto di assaporare cibo naturale e per la soddisfazione di procurarselo da soli. Oggi si chiama foraging, l’arte di portare, dalla terra alla tavola e quindi nei nostri piatti, erbe spontanee commestibili. Si tratta di uno stile alimentare, ma anche di una filosofia sostenibile che promuove la biodiversità. Lo pratica la gente comune, che conosce bene le erbe, ma anche chef stellati. Erbe spontanee e cibo selvatico, che finiscono sempre più spesso nei nostri piatti e che vantano benefici per l’organismo e per l’ambiente. Si dice che il foraging abbia le sue origini nei paesi scandinavi, dove si è cominciato a praticarlo per inserire nei menù di noti ristoranti erbe spontanee, un modo innovativo di cucinare che recupera le tradizioni del passato e le materie prime selvatiche del territorio. Foraging significa in sostanza, raccogliere bacche, fiori, licheni, funghi, foglie e cortecce degli alberi, ma anche alghe, a seconda che si pratichi in campagna, in un bosco alpino o in mare. Recuperare frutti commestibili che la natura offre allo stato selvatico, oltre ai già noti e disponibili ormai ovunque, frutti di bosco. Parliamo di sapori dimenticati, spesso robusti, amari o aspri, ma in grado di donare un gusto inconfondibile ad alcune pietanze. Consumare questi cibi selvatici, inoltre, garantisce un apporto vitaminico e di sali minerali davvero prezioso. Spesso, bacche, erbe e radici, ovviamente di stagione, sono vere e proprie miniere di nutrienti benefici per l’organismo.
Come abbiamo detto, il foraging si può praticare in campagna, nei boschi, tra i campi, al lago e anche al mare, ossia ovunque si possano trovare prodotti della natura commestibili. La raccolta, tuttavia, deve essere davvero sostenibile, nel pieno rispetto dell’ambiente. Per far sì che ciò avvenga, è bene rispettare alcune semplici regole, come: raccogliere erbe e frutti in zone non inquinate (evitare il ciglio delle strade trafficate, oppure poste nelle zone limitrofe ad aree industriali); non entrare in riserve naturali e zone protette; raccogliere solo la parte superiore della pianta, senza strappare le radici o danneggiare il terreno circostante; raccogliere la corteccia soltanto da alberi abbattuti e non quella degli alberi vivi. E, soprattutto, essere consapevoli di quello che si raccoglie e quindi competenti ed esperti. Ne abbiamo parlato con Valeria Mosca, antropologa culturale, esperta di etnobotanica, guida escursionistica, ricercatrice e ambientalista e fondatrice di wood*ing wild food lab, un laboratorio di ricerca e sperimentazione sull’utilizzo del cibo selvatico per l’alimentazione e la nutrizione umana.
In cosa consiste il foraging? Può essere classificato come l’evoluzione dell’alimurgia praticata dai nostri antenati?
Per foraging s’intende la raccolta di erbe spontanee adatte al nutrimento umano, in ambienti meno contaminati possibile. Non è esattamente la conseguenza dell’alimurgia, sono più o meno la stessa cosa. Il foraging si può definire come un’attitudine che l’uomo ha sempre avuto, il comportamento del “raccogliere” che praticano anche altri animali. L’alimurgia era una vera e propria scienza che fino ai primi decenni del primo ‘900, studiava la possibilità di nutrirsi di cibo selvatico in momenti di carestia o povertà, cosa all’epoca molto comune per le persone con poche risorse. A quei tempi, infatti, non si praticava ancora l’agricoltura intensiva e tutto ciò che veniva prodotto e coltivato a quei tempi, era destinato ai ceti più abbienti.
Il foraging conservativo invece, in cosa si differenzia?
Il foraging conservativo è una mia invenzione e teorizzazione, un foraging speciale che evita la raccolta di erbe tradizionali che, oggigiorno, causerebbe un depauperamento, un danno ambientale. Ho inventato questo tipo di foraging analizzando gli ambienti naturali in maniera ecologica e biologica, identificando quelle piante invasive prevalentemente introdotte dall’uomo che sono dannose per la nostra biodiversità. Ho esaminato gli usi alimentari e ho capito che il foraging doveva essere di tipo conservativo cioè che non dobbiamo raccogliere tutto quello che nasce dalla terra ma solo quello che potrebbe essere dannoso all’equilibrio dell’habitat, in modo da agevolare l’ambiente stesso. Praticare foraging non significa rendere tutti dei raccoglitori ma instaurare un nuovo rapporto con l’ambiente naturale, che abbia finalità mutualistiche, di relazione, non utilitaristiche.
Il foraging si occupa anche di erbe medicinali?
Sì, può anche occuparsi di erbe medicinali. Generalmente un forager si occupa della parte edibile ma può anche occuparsi della parte curativa.
Esiste una catalogazione di erbe e radici selvatiche commestibili?
Ci sono tanti manuali. Nel Wooding food lab che ho creato dodici anni fa e dove ancora oggi lavoro, ho creato un data base di queste piante/ingredienti.
Le erbe che interessano il foraging sono invasive?
Le erbe che interessano il foraging in generale non lo sono, mentre nel foraging conservativo che ho teorizzato sicuramente sì.
Sono erbe autoctone o provengono anche da coltivazioni estranee al nostro tipo di vegetazione?
Ci sono molti vegetali a disposizione: autoctoni, alloctoni, esogeni, invasivi… La teoria del foraging conservativo si focalizza prevalentemente su piante infestanti, aliene ed esogene perché si preferisce lasciare gli habitat intatti e concentrarsi solo su quello che è dannoso.
Rispetto alle piante che si usava raccogliere in passato, c’è la stessa varietà a disposizione o molte mancano all’appello?
Ce ne sono alcune che si sono estinte e altre che sono arrivate. E’ molto difficile reintrodurre in maniera ecologica una pianta estinta. Ci sono però dei casi in cui è successo. Anche noi abbiamo un progetto di recupero di alpeggi di alta montagna in stato di abbandono, dove andiamo a volte a reinserire le piante che sono scomparse a causa dell’abbandono dell’uomo e della discesa del bosco. Quando l’alpeggio è abbandonato dall’uomo, il suo habitat naturale, ma anche semi antropizzato, senza la presenza dell’uomo e delle sue attività, viene lentamente coperto dal bosco che avanza. In questo avanzamento, le specie erbacee più piccole scompaiono. Il progetto “Thinking like a forest” prevede la pulizia dell’alpeggio dalle piante invasive della foresta che avanza e il reinserimento delle piante che sono scomparse.
Come deve avvenire la raccolta per essere davvero sostenibile, nel pieno rispetto dell’ambiente?
La raccolta deve essere rispettosa e oculata. Per fare un foraging corretto è necessario conoscere l’identificazione delle piante ma destreggiarsi anche in altre discipline, dall’ecologia alla geografia, la botanica, l’etnobotanica. Questo ci permette di conoscere a fondo gli ambienti naturali e quindi di rispettarli. Ci sono tutte una serie di norme che regolano il comportamento di un forager che ormai sono codificate e si trovano sui principali manuali. Queste regole vanno da un lato a tutelare la nostra sicurezza personale, quindi indicano di raccogliere solo quello che si riesce a riconoscere con certezza e solo in territori incontaminati e non inquinati: dall’altra parte invece vanno a tutelare la salute dell’ambiente e indicano come raccogliere solo una piccola parte di quello che vediamo disponibile, la sezione della pianta che ci interessa e senza estirparla per intero, oltre a cercare di non lasciare tracce del nostro passaggio.
Raccogliere bacche, fiori, licheni, funghi, foglie e cortecce degli alberi, ma anche alghe. Esistono quindi vari tipi di foraging a seconda che si pratichi in campagna, in un bosco alpino o in mare?
Il foraging segue sempre lo stesso principio, cambia solo la nostra preparazione e conoscenza degli habitat. Nel mare, per esempio, sotto la superficie dell’acqua si raccolgono prevalentemente molluschi, alghe e piante acquatiche. Nella fascia intercotidale, cioè la zona dell’ambiente marino compresa tra i livelli della bassa e dell’alta marea, che è uno dei tre sistemi degli habitat marini, si trovano tante piante che non sono alghe ma vere piante, come ad esempio la salicornia detta anche asparago di mare.
Che tipo di preparazione bisogna avere per praticare il foraging in sicurezza?
Il foraging si fa solo quando si è realmente preparati, per proteggere noi stessi e le persone cui andiamo a somministrare questo cibo perché un errore può essere fatale causando intossicazioni anche mortali. Preparati e competenti anche per una questione ambientale, bisogna affrontare questa disciplina con solide basi scientifiche. L’unico corso professionale da forager che c’è in Italia è quello che offriamo noi al Wild Food Lab, il Foraging Academy. Si tratta di un percorso professionalizzante di un anno. Si studia botanica, etnobotanica ma anche materie che riguardano l’introduzione all’habitat, la tossicologia, la conservazione e altre discipline. Il corso si svolge in presenza nell’ambito delle varie stagioni in diversi habitat. Le sedi dei corsi sono prevalentemente in Lombardia.
Nel 2010 hai fondato Wild Food Lab, di cui abbiamo già parlato, un laboratorio di ricerca e sperimentazione sull’utilizzo del cibo selvatico per l’alimentazione e la nutrizione umana. Quali attività svolgete?
Svolgiamo prevalentemente attività di ricerca con lo scopo primario di catalogare, sotto il punto di vista chimico e nutrizionale, il cibo selvatico esistente sul Pianeta. Negli anni ci siamo aperti alla divulgazione attraverso la pubblicazione di libri, la realizzazione di documentari, per diffondere la cultura del foraging. Ci occupiamo, come detto prima, di formazione professionale con l’Academy ma anche con corsi amatoriali. Abbiamo un progetto per collaborare con le scuole, dove insegniamo il foraging come materia scolastica a bambini e ragazzi. Riteniamo che questo insegnamento sia un’ottima risorsa di educazione ambientale per i più giovani, perché insegna un concetto molto contemporaneo che è quello di utilizzare l’ambiente come risorsa ma di farlo nel rispetto più totale. Divulgare una cultura che abbracci una visione mutualistica del rapporto con l’ambiente naturale e una visione non antropocentrica dell’esistenza è una delle mie missioni primarie. Facciamo anche molta attività di consulenza per fooder, aziende alimentari, cosmetiche ed elaboriamo prodotti a basso impatto ambientale. Ci occupiamo anche di numerosi progetti, grazie ai nostri partner anche istituzionali, legati alla tutela della biodiversità e alla cooperazione con l’ambiente.
Cosa è la Walden School of nature? Che tipo di approccio alla natura viene insegnato?
La Walden School of Nature fa parte dei nostri progetti di formazione ed è una piattaforma che inaugurerà a breve, il prossimo autunno, una piattaforma di e-learning che fornirà corsi sia materiali sia professionali di alta formazione tutti riguardanti la relazione con il mondo naturale.