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Tutti i paesaggi sono portatori di una valenza estetica.

Intervista di Anna Magli a Paolo D’Angelo, Professore Ordinario di Estetica presso l’Università di Roma Tre.

Da qualche tempo la riflessione teorica ha trascurato la bellezza naturale, trattandola semplicemente come un riflesso di quella artistica. È necessario perciò comprendere di nuovo quali strumenti ci permettano oggi di avvicinarla, quale storia essi abbiano dietro di sé, quali principi orientino il nostro modo di guardare la natura, ma anche quali ingenuità e quali velleitarismi si nascondano in tante prese di posizione che invocano la difesa dei suoi valori. Nel saggio “Estetica della Natura” Edizioni Laterza, Paolo D’Angelo, Professore Ordinario di Estetica presso l’Università di Roma Tre, ricostruisce la storia della bellezza naturale e dell’idea di paesaggio in un percorso che va dall’antichità ai nostri giorni, ma traccia anche le coordinate di un presente che spazia dal pensiero scientifico alle esperienze della Land Art, dalla filosofia della natura alle disposizioni di legge italiane e internazionali.

Per quasi due secoli abbiamo assistito all’oblio e alla rimozione della bellezza naturale rispetto a quella artistica. La vera bellezza è quella prodotta dall’attività umana, e quella naturale è solo un riflesso o nella migliore delle ipotesi un precorrimento e un annuncio di quella artistica.  Come si era formato questo pensiero?
Per circa duemila anni la convinzione dominante è stata quella secondo la quale la bellezza risiede innanzitutto nella natura, e l’arte può quindi essere bella solo in quanto si fa interprete della bellezza naturale. Il grande pittore Albrecht Dürer ha scritto “L’arte sta nascosta nella natura; e chi sa trarla fuori di essa, la possiede”. È la teoria tradizionale della mimesi, o della imitazione. La stessa figura umana, per secoli considerata l’oggetto più elevato dell’arte, rappresenta il culmine, la perfezione della bellezza naturale. Con il Romanticismo le cose hanno cominciato a cambiare: si è considerata la bellezza artistica come superiore a quella naturale, e si è arrivati a pensare che la bellezza naturale fosse una proiezione della bellezza artistica, e non esistesse indipendentemente da questa. Alla base della nuova convinzione stava l’idea che l’arte non fosse riproduzione o imitazione, ma espressione, e perciò strettamente dipendente dalla soggettività umana. L’allontanamento dalla natura, la crescente artificialità delle nostre vite nelle società industriali ha fatto il resto. Baudelaire diceva di non poter nemmeno immaginare di scrivere poesie sui fiori o le piante, e sognava un ambiente totalmente artificiale.  Le avanguardie artistiche del Novecento hanno spesso rifiutato la stessa possibilità di una bellezza naturale. 

 

Dagli anni ’70 dello scorso secolo, il paesaggio e la natura tornano a essere fonte di esperienza estetica per l’uomo di oggi. Che cosa è successo? Che cosa ha determinato questa nuova visione?
È successo che i movimenti ecologisti, la percezione dei pericoli che incombono sulla natura, i rischi indotti dallo sviluppo umano, hanno creato una nuova sensibilità nei confronti della natura. L’ecologia non si è interessata quasi mai in primo luogo alla bellezza naturale, ma molti hanno visto nella bellezza della natura almeno un incentivo a proteggerla. Si è sottolineato che l’interesse per la bellezza naturale può se non altro contribuire a promuovere un atteggiamento di cura nei confronti della natura, a livello soggettivo. D’altro lato si sono sviluppati filoni di pensiero che hanno tentato di attribuire la bellezza alla natura come qualità ad essa insita, anche indipendentemente dalla percezione umana. In questo quadro abbiamo assistito ad una forte ripresa di interesse per la nozione di paesaggio.

 

Nel suo libro lei parla della diffidenza che per lungo tempo l’ecologia ha mostrato verso la nozione di paesaggio. Dagli anni Sessanta, ma anche in tempi più recenti, il termine ‘paesaggio’ è stato considerato in senso estetico, invecchiato rispetto ai concetti chiave dell’ecologia, inservibile ai fini della tutela. É così?
Quello che abbiamo appena visto può contribuire a spiegare la diffidenza che lungo gli anni Sessanta, Settanta serpeggiava nei confronti della nozione di paesaggio. Quando apparve il libro del filosofo italiano Rosario Assunto, Il paesaggio e l’estetica, nel 1973, venne accolto con sufficienza, come la fissazione di un esteta fuori dal tempo. Erano, del resto, i tempi in cui ci si entusiasmava per i progressi dell’industria, l’espansione edilizia; ed erano anche gli anni in cui si compiva una delle manomissioni più gravi del nostro paesaggio. Ma anche chi era preoccupato per le sorti della natura, anche chi aveva una sensibilità ecologica, vedeva in fondo nel paesaggio una nozione fuorviante, che impediva di mettere a tema i veri problemi dell’ambiente. Contribuiva a tutto ciò un certo partito preso a favore della natura selvaggia, intatta. Un atteggiamento molto radicato soprattutto nel Nord America, dove la Wilderness appartiene per così dire ai miti fondativi della nazione. Ma se pensiamo a un paesaggio puramente naturale abbiamo difficoltà a confrontarci con un paesaggio come quello europeo, e italiano in specie, che è il frutto di una secolare collaborazione dell’uomo e della natura. E che si ripropone a coloro i quali vedono nel paesaggio (e anche nella grande pittura di paesaggio del passato) un semplice ornamento, un abbellimento capace solo di stendere un velo sulle manomissioni più gravi della natura. 

 

Un ruolo di rilevanza lo gioca il fatto che l’ambientalismo pensa alla sopravvivenza del Pianeta come obiettivo prioritario e ogni questione relativa alla bellezza sembra passare in secondo pano, da prendere magari in considerazione una volta che il pianeta sia stato messo in salvo. Tutela del paesaggio e transizione ecologica sono dunque inconciliabili?
Sono invece profondamente convinto del contrario. Paesaggio ed ecologia dovrebbero essere considerati due lati della stessa medaglia. Possiamo davvero immaginare un paesaggio che apprezziamo, nel quale ci sentiamo a casa, che viviamo con partecipazione e benessere, e che possa essere una natura contaminata, pericolosa, distrutta e distruttiva? Non dovremmo invece vedere nel paesaggio apprezzabile, nel “bel paesaggio”, il paradigma di un buon rapporto con la natura? Infondo i paesaggi che amiamo sono stati ‘costruiti’ nel tempo, nei secoli, da un’attenta e rispettosa opera dell’uomo, mentre i paesaggi che troviamo distopici, inaccettabili sono quasi sempre frutto di interventi che hanno in primo luogo danneggiato la natura e l’ambiente.  Dobbiamo però superare la convinzione, ancora piuttosto diffusa, che paesaggi portatori di valori estetici siano solo i paesaggi “eccezionali”, quelli consacrati da una lunga tradizione. Non è così. Tutti i paesaggi sono portatori di una valenza estetica, che può essere altissima, mediocre, o addirittura negativa. Ma in tutti e tre questi casi resta quel carattere di “indicatore” dello stato di salute di un luogo di chi ho appena parlato.  

 

Lei scrive che l’identità estetica di un luogo, cioè il modo in cui la comunità presente su un territorio sviluppa un legame estetico con quel territorio, l’esperienza estetica apre a una molteplicità di azioni differenti: non solo la conservazione, ma anche il ripristino, la progettazione, la rigenerazione. Possiamo fare qualche esempio?
In realtà intendo l’identità in relazione al paesaggio non nel senso che il luogo concorra a formare l’identità di chi quel luogo abita, ma nel senso che il paesaggio stesso è portatore di una propria identità, cioè possiede determinate caratteristiche che lo connotano come quel luogo particolare, caratteristiche che possono mutare nel tempo, ma a patto che non snaturino completamente quella identità. Penso l’identità dei luoghi in analogia con l’identità personale, che non è immobile ma che, in un percorso coerente, non può subire stravolgimenti. La concezione del paesaggio come fonte di identificazione per le popolazioni residenti è teorizzata nella Convenzione Europea del Paesaggio, siglata a Firenze nel 2000. Dunque, su questo punto specifico non concordo con la CEP. Concordo invece con la Convenzione a proposito dei tre tipi di intervento sul paesaggio che lei ricordava nella sua domanda. Per paesaggi di pregio e tradizione particolare si può parlare di conservazione; per i paesaggi “ordinari” si può intervenire progettualmente per pensare trasformazioni accettabili; per i paesaggi degradati, infine, sono possibili interventi di ripristino, di Land reclamation.

 

Che cosa è la Land Art e che ruolo gioca nella definizione del nostro rapporto con la Natura?
Con Land Art si intende di solito una corrente dell’arte nord-americana sviluppatasi a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Artisti influenzati da Minimalismo hanno cercato di uscire dalla Galleria, di realizzare grandi opere negli spazi aperti della natura: Double Negativ di Michael Heizer, o la Spiral Jetty di Robert Smithson. Si tratta di interventi monumentali, invasivi, collocati per lo più in contesti non antropizzati, desertici, e realizzati con l’aiuto di macchinari. Il loro legame col paesaggio non appare sempre essenziale, dato che la scelta dei luoghi spesso è dettata da contingenze. Molto diverso è il rapporto con la natura e il paesaggio presupposto dalle operazioni in natura di artisti europei come Richard Long, Hamish Fulton e, tra gli italiani, Giuliano Mauri o Giuseppe Penone. Qui il legame coi luoghi è determinante, così come lo è la scelta di interventi con materiali trovati in situ, spesso deperibili, e comunque lavorati innanzitutto dalla mano dell’uomo. Abbiamo in Italia l’occasione di osservare questo tipo di arte in parchi artistici ad essa dedicati, come Arte Sella in Trentino, la Collezione Gori alla Fattoria di Celle, o Fiumara d’arte in Sicilia. Tutti luoghi che, anche dal punto di vista paesaggistico, meritano sicuramente una visita.