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Paolo Ciampi, Sempre in cammino, nelle parole
e nei sentieri, per incontrare se stessi e connettersi all’umanità dei luoghi che si accolgono.

Intervista di Anna Magli a
Paolo Ciampi, giornalista e scrittore.

Giornalista e scrittore fiorentino, Paolo Ciampi ha all’attivo oltre trenta libri con diversi riconoscimenti nazionali e adattamenti teatrali. Ha raccontato viaggi a piedi e in bicicletta, con particolare riferimento a Olanda, Polonia, Gran Bretagna e alcuni cammini, quali la Via degli Dei e le Foreste Casentinesi. È molto attivo nella promozione degli aspetti sociali della lettura e partecipa a numerose iniziative nelle scuole. Per due volte, nel 2019 e nel 2021, è stato candidato al Premio Strega con i libri L’ambasciatore delle foreste e Il maragià di Firenze. Il suo ultimo libro è La terapia del bar. Storie di luoghi resistenti dove racconta come connettersi con altri, nascondersi o incontrarsi. E’ uno degli ideatori del festival itinerante “Parole, passi, sogni”.

Ciampi lei è un po’ come la canzone di Guccini, Bologna, “già un poco in Romagna e in odor di Toscana.” Così come in Parole, passi, sogni, che coinvolge l’Appennino Tosco Emiliano e Tosco Romagnolo. Perché avete scelto questi luoghi?

Non per caso. Questa è una scelta di fondo del sottoscritto e dei Libri di Mompracem, l’associazione culturale per la promozione del libro e della lettura che animo insieme ad altri amici scrittori, giornalisti, illustratori. Fin dall’inizio abbiamo deciso di guardare oltre le grandi città e di avviare percorsi in piccoli borghi, in aree rurali e montane dove le sfide sono più intriganti e c’è più possibilità di sperimentare esperienze che poi potranno essere portate avanti anche altrove. Ci piace soprattutto scommettere sull’Appennino tra Toscana ed Emilia Romagna, che da sempre conosciamo come una realtà che, nella sua varietà, è terreno fertile. Ci piace l’idea di proporci come un ponte tra le due regioni, anzi l’idea di utilizzare quel ponte naturale che è l’Appennino: perché la montagna è passaggio prima ancora che confine fisico.

 

C’è bisogno di natura e c’è bisogno di cultura. Come convivono queste due esigenze nei vostri itinerari.

Non c’è natura che di per sé non dialoghi con la cultura, per lo meno con quella cultura materiale che si traduce nel lavoro e vive nell’interazione tra uomo e ambiente. Ma poi credo che la scommessa sia di cogliere al massimo le potenzialità del rapporto tra natura e cultura e questo vale in particolar modo per l’Appennino. Un modo per scoprirlo è il cammino o più in genere il viaggio lento: in una dimensione di lentezza, appunto, che si fa anche riflessione e scoperta, racconto e ascolto. Non è un caso che il marchio di molte nostre iniziative richiami i passi e le parole.

 

La montagna come luogo abbandonato di borghi antichi dove nessuno vuole più andare ad abitare. C’è nei vostri desideri anche un progetto di rivitalizzazione di questi borghi, magari portando eventi per farli scoprire a chi ne ignora persino l’esistenza?

Magari vorremmo essere proprio noi a sperimentare la possibilità di una nuova vita nei borghi che finora abbiamo considerato solo per la tendenza all’abbandono. La questione della rivitalizzazione è ovviamente complessa, richiama per esempio il problema dei servizi ma oggi mette in gioco anche nuove opportunità, pensiamo per esempio allo smart working e alla possibilità stessa di animare una casa editrice anche lavorando a distanza. Di una cosa però sono sicuro, la rivitalizzazione passa pure per la cultura, con la sua capacità attrattiva e di ritorno economico. Trova alimento negli stessi eventi come i festival, purché siano concepiti come tappe che lasciano qualcosa in termini di coinvolgimento e di costruzione di reti.

 

La Via degli Dei che lungo l’Appennino, da Bologna giunge a Firenze, è protagonista Tre uomini a piedi, così come Un popolo in cammino è il viaggio per riscoprire le proprie radici e cercare ciò che il tempo ci lascia, nella lingua o nei paesaggi. Nei suoi libri il cammino appare un tema ricorrente, quasi una necessità. Cosa significa per lei?

Non bisogna essere degli atleti o dei fanatici del trekking per mettersi in cammino. Più importante è mettersi in gioco con tutto il nostro corpo, non per attraversare un luogo, ma per stabilire con esso una sorta di intimità. Camminare è di sicuro una palestra di attenzione. E certamente è anche qualcosa che permette di porci in ascolto di noi stessi e di ridefinire le priorità della nostra vita. Tornando a casa – e il tema del ritorno è tra quelli che più mi interessano – ci portiamo dietro luoghi che diventano parte di noi. E accettiamo in qualche maniera di cambiare e di ripartire diversi nella vita di ogni giorno. Per questo il cammino è anche una buona fonte di ispirazione per i libri.

 

Nel cammino s’impara ad appropriarsi del territorio ma anche a fare incontri. Le due cose si completano?

Assolutamente sì, non riesco a concepire un cammino – o comunque un viaggio lento – che non sia costellato di incontri, che non stabilisca relazioni anche con l’umanità che anima un luogo e ci accoglie. I viaggi sono essenzialmente i nostri incontri: e questo vale anche per i viaggiatori solitari. Forse per loro ancora di più.

 

Ci racconta il suo ultimo libro, La terapia del Bar? Quale microcosmo si raccoglie in questi mondi reali così spesso soppiantati dalle relazioni impersonali che si sviluppano sul web?

È una dimostrazione di affetto nei confronti di questi luoghi che ci aspettano nel tempo che non è quello del lavoro o della cura domestica. Luoghi pubblici, ma in cui ci possiamo riconoscere come comunità costruita con la frequentazione abituale, le chiacchiere, i saluti al banco, i giornali e i giochi di carte al tavolo. Da qualche tempo l’avevo per la testa e ora ha trovato spazio in quella splendida collana che è la Piccola Filosofia di Viaggio di Ediciclo. Indubbiamente dentro c’è anche molta nostalgia, perché il pensiero va ai bar e ai circoli di una volta, col biliardo, il juke-box, l’immancabile spuma, le lotterie per Pasqua. Sono sempre meno a Bologna o a Firenze, però riesco ancora a ritrovarli, o a scoprirli, proprio sull’Appennino.